Ultima lettura dell’anno, invero conclusasi settimane or sono con somma soddisfazione.
Di norma non accetto consigli perché temo che mi scompiglino la hybris, quindi parlare con me si rivela spesso inutile, ma il suggerimento per questo scritto è comparso durante una fortuita e proficua conversazione che ho avuto con una signora dotata di raro acume.
Io (già specificare il pronome personale dice molto) considero il narcisismo una vox media, tema ampio e dirimente sul quale molto di giusto credo che abbia scritto Heinz Kohut, ma in Green ravviso un maggiore accento su come questo, in determinati casi, si leghi anche alla pulsione di morte.
A un certo punto c’è una divertente citazione di Goethe con cui Green dà corpo a un suo excursus e che secondo me riassume molte mentite spoglie: “Io t’amo, ma questo ti riguarda?”.
I concetti di non-rimosso e di vuoto psichico sono interessanti sviluppi post-freudiani, quasi una naturale emanazione a cascata del senex, ma dal mio punto di vista sono anche e soprattutto ulteriori strumenti per l’introspezione giacché non devo analizzare altro all’infuori di quanto di me mi risulti accessibile: si fa quel che si può e sovente manco quello. Ovviamente le stesse astrazioni all’uopo si rivelano utili per certe e opportune demolizioni.
I moti dell’animo sono più quantizzati di quanto taluni vogliano ammettere (ci sono di mezzo le negazioni atte a salvaguardare la portata di slanci grotteschi), si ripetono in modelli coattivi e la loro decifrazione ne rende becere le manifestazioni più comuni.
Il logos non abbraccia tutto, ma cinge più di quanto serva ai servi.
Narcisismo di vita, narcisismo di morte di André Green
Pubblicato martedì 31 Dicembre 2024 alle 13:26 da FrancescoNon ho novità di rilievo in questo mio incedere verso l’attimo che segue. Un’anziana signora mi ha preso in simpatia e ogni tanto mi fa qualche piccolo regalo, ma io non posso contraccambiare i suoi doni con più di quanto lei proietti su di me: nulla ho da offrirle se non l’immagine di cui mi ritiene origine. La vecchiaia non è sempre terribile, di questo ne ho avuto prova per interposti senescenti, ma credo che si riveli tragica quando a monte manchi un certo lavoro interiore. L’intuito forse lo nega, tuttavia sono d’accordo con chi sostiene che sia la gioventù l’età della saggezza e non quanto la guarda volgendosi indietro.
Non ho arte né parte, nella vita non ho combinato nulla e non ho coltivato in profondità alcun genere di relazione umana, però mi sento in equilibrio sulla grande onda e per adesso non ho nulla di cui lamentarmi. Miei e solo miei sono stati i giorni dei risvegli più fausti, perciò il ricordo non può essere ripartito né parcellizzato con nessuno, ma anch’io per ogni altro ho lo stesso nome con cui Odisseo si presentò a Polifemo: è l’equa indifferenza che rende meritevole di sé chi di sé meritevole sia davvero. Poco m’importa del nome che porto e non ambisco a sentirne l’eco, ma ci sono delle istanze al mio interno di cui sono l’entusiasta interprete e ogni tanto mi chiedo quanto di me rivelino a me medesimo.
A volte forse mi dimentico di quanto sia grande il privilegio di una certa consapevolezza, al netto delle mancanze e degli errori che può implicarne un’incauta custodia. Il mio spirito non ha ancora iniziato la sua parabola discendente e sento come anche il mio corpo non abbia raggiunto la sua massima efficienza. A conti fatti, nonché al confronto diretto con la realtà, la mia età anagrafica al momento risulta inattendibile: un numero perso tra i suoi simili. Non ho missioni da compiere né sogni da coronare, non ho abilità particolari e non ho importanza che per me, tuttavia rifulgo ed esisto perché quello dell’amor proprio è uno dei miei tratti preminenti. A me sono rivolto.
Il clima mite di questo dicembre inoltrato mi ricorda il periodo natalizio che ebbi a trascorrere dieci anni or sono in mezzo all’Oceano Pacifico. I ricordi dei miei viaggi sono tutti belli e di questo mi rallegro oltremodo. Per mia fortuna non devo sobbarcarmi l’onere d’impacchettare doni o d’infiocchettare mezze verità: i miei regali partiranno da me e a me giungeranno, come in una sorta di economia circolare. Non so se la condivisione mi manchi giacché talora può implicare delle profonde rotture di palle, tanto nel senso degli addobbi quanto in quello delle gonadi maschili: credo che tale interrogativo sia destinato a rimanere insoluto.
Vi sono isole in lenta deriva, pianeti che si allineano, effetti carsici in divenire e movimenti stazionari di cui nessuno si avvede: molto manca all’elenco e forse non è manco il caso di stilarne uno. Sono orfano d’idee, però mi sento figlio del mio tempo e adoro l’anonimato della mia esistenza. Prima o poi dovrò dismettere il corpo che indosso come abito e del quale mi prendo cura, ma non so cosa ne sarà della vita interiore da cui traggo intense suggestioni.
Sfrutto ciò di cui dispongo, ma un domani potrei vedermi costretto ad avvalermi della facoltà di non rispondere in quanto defunto: insomma, spero che da morto il mio silenzio non venga preso per maleducazione. Mi sento ancora in espansione nella mia dimensione psicofisica, sono alimentato da entusiasmi che non devo neanche rinforzare poiché la loro è una combustione continua e spontanea. Ho cose da fare per il piacere di farle e il resto vada pure come deve andare. Sono sereno e non vedo né sento sirene.
Una morte improvvisa ha colto una persona di mia conoscenza. Taluni lasciano il corpo senza preavviso e senza affiggere biglietto alcuno giacché non torneranno subito: forse un domani, chissà dove, vi sarà la rimpatriata delle anime perse. Tutto è vanità. Anche i miei giorni sono contati senza che ne enumeri ognuno. Tutto è destinato all’estinzione e al superamento, perciò non resta che l’attimo stesso nella sua natura fugace e spesso intangibile. Qualcuno, forse uno scrittore esistenzialista o uno dei suo personaggi (Camus? Sartre?), un giorno ebbe a dire qualcosa del genere: “Anche se nulla ha senso è bene che io ceni”.
A tutta prima mi pare che la morte non riguardi i defunti, bensì concerna i vivi o presunti tali. Un evento inaspettato può confondere un soggettivo ordine delle cose, perciò solo l’individuo può ristabilirlo dentro di sé e immagino che spesso il tempo sia il migliore tra i suoi possibili alleati. I lutti non mi appartengono, sono di taglia troppo ampia per la mia vita stretta, perciò partecipo all’altrui dolore nella forma di una privata comunione col ricordo del defunto: chi egli fu è ancor un po’ per me, nelle mie sparute memorie delle parole che furono e dei gesti a cui gli arti diedero seguito. La natura dell’assenza è uno specchio che nulla riflette, è l’imperfezione di un ronzio a cui non si possono mai riconoscere i titoli di silenzio compiuto.
La morte altrui parla della nostra e per una volta mi fa usare il plurale maiestatis, ne fa annuncio a data da destinarsi: essa rammenta l’inesorabile facendosi inesorabile. Così passa la gloria del mondo e un giorno anche al mondo stesso, in ragione della sua scomparsa, non sarà più riconosciuta gloria alcuna. Riposi in pace chi già l’abbia trovata, morto o vivo che sia.