Il clima mite di questo dicembre inoltrato mi ricorda il periodo natalizio che ebbi a trascorrere dieci anni or sono in mezzo all’Oceano Pacifico. I ricordi dei miei viaggi sono tutti belli e di questo mi rallegro oltremodo. Per mia fortuna non devo sobbarcarmi l’onere d’impacchettare doni o d’infiocchettare mezze verità: i miei regali partiranno da me e a me giungeranno, come in una sorta di economia circolare. Non so se la condivisione mi manchi giacché talora può implicare delle profonde rotture di palle, tanto nel senso degli addobbi quanto in quello delle gonadi maschili: credo che tale interrogativo sia destinato a rimanere insoluto.
Vi sono isole in lenta deriva, pianeti che si allineano, effetti carsici in divenire e movimenti stazionari di cui nessuno si avvede: molto manca all’elenco e forse non è manco il caso di stilarne uno. Sono orfano d’idee, però mi sento figlio del mio tempo e adoro l’anonimato della mia esistenza. Prima o poi dovrò dismettere il corpo che indosso come abito e del quale mi prendo cura, ma non so cosa ne sarà della vita interiore da cui traggo intense suggestioni.
Sfrutto ciò di cui dispongo, ma un domani potrei vedermi costretto ad avvalermi della facoltà di non rispondere in quanto defunto: insomma, spero che da morto il mio silenzio non venga preso per maleducazione. Mi sento ancora in espansione nella mia dimensione psicofisica, sono alimentato da entusiasmi che non devo neanche rinforzare poiché la loro è una combustione continua e spontanea. Ho cose da fare per il piacere di farle e il resto vada pure come deve andare. Sono sereno e non vedo né sento sirene.
Una morte improvvisa ha colto una persona di mia conoscenza. Taluni lasciano il corpo senza preavviso e senza affiggere biglietto alcuno giacché non torneranno subito: forse un domani, chissà dove, vi sarà la rimpatriata delle anime perse. Tutto è vanità. Anche i miei giorni sono contati senza che ne enumeri ognuno. Tutto è destinato all’estinzione e al superamento, perciò non resta che l’attimo stesso nella sua natura fugace e spesso intangibile. Qualcuno, forse uno scrittore esistenzialista o uno dei suo personaggi (Camus? Sartre?), un giorno ebbe a dire qualcosa del genere: “Anche se nulla ha senso è bene che io ceni”.
A tutta prima mi pare che la morte non riguardi i defunti, bensì concerna i vivi o presunti tali. Un evento inaspettato può confondere un soggettivo ordine delle cose, perciò solo l’individuo può ristabilirlo dentro di sé e immagino che spesso il tempo sia il migliore tra i suoi possibili alleati. I lutti non mi appartengono, sono di taglia troppo ampia per la mia vita stretta, perciò partecipo all’altrui dolore nella forma di una privata comunione col ricordo del defunto: chi egli fu è ancor un po’ per me, nelle mie sparute memorie delle parole che furono e dei gesti a cui gli arti diedero seguito. La natura dell’assenza è uno specchio che nulla riflette, è l’imperfezione di un ronzio a cui non si possono mai riconoscere i titoli di silenzio compiuto.
La morte altrui parla della nostra e per una volta mi fa usare il plurale maiestatis, ne fa annuncio a data da destinarsi: essa rammenta l’inesorabile facendosi inesorabile. Così passa la gloria del mondo e un giorno anche al mondo stesso, in ragione della sua scomparsa, non sarà più riconosciuta gloria alcuna. Riposi in pace chi già l’abbia trovata, morto o vivo che sia.