Ho una predilezione per i temporali estivi e preferisco l’ira dei nembi all’indolenza dell’afa o di quanto le rassomigli. Maestose, tragiche e devastanti nelle loro espressioni più intense, subisco dalle forze della natura una fascinazione archetipica, ma se mi trovassi in loro balìa la mia attenzione sarebbe rivolta ad altre e più dirette conseguenze. Alla spontanea lingua della distruzione risponde quella indecifrabile dei silenzi, anch’essi passeggeri come la prima, ma per me è difficile stabilire quale delle due sia causa dell’altro.
Non mi spingo a definirmi meteoropatico, però certe situazioni atmosferiche le preferisco ad altre e mi piacerebbe poterle scegliere a piacimento. Per decidere le condizioni del tempo dovrei prima fare un apprendistato da megalomane e poi un concorso da demiurgo, ma non è una carriera nelle mie corde, a riprova di come non tutto sia possibile. Pioverà quando io lascerò il mio attuale corpo? O forse spirerò in pieno giorno, con il cielo terso e l’ingombrante presenza del Sole per interposti raggi?
Adoro la brevità e l’intensità delle piogge tropicali, mi piacciono anche certi pomeriggi d’autunno che vengono guastati da piccole burrasche, come se queste fossero dei barbari all’assalto di una civiltà già in declino: i turbamenti non mi turbano. Non c’è esposizione universale che possa tenere il passo di quella agli eventi atmosferici. In più occasioni mi sono ritrovato con la testa fra le nuvole, ma ricordo con piacere quelle in cui v’ero di fatto, ossia a bordo di qualche aereo.
Quando mi trovo ad alta quota non penso mai a quanto vi sia oltre quel livello, come se altro zenit non esistesse. Forse accade un’omissione analoga nei più fausti moti dell’animo perché sembra che nulla d’altro possa arricchire la già lieta novella. Può darsi che al peggio non vi sia mai fine e immagino che lo stesso valga per il suo esatto opposto, ma soprattutto mi chiedo se la fine stessa s’incontri mai dinanzi a sé.