Quando le giornate si allungano mi sembra che la vita faccia altrettanto. Nell’aria vibra qualcosa che contraddice il mondo stesso in maniera positiva e io sono contento di riuscire a cogliere queste sfumature d’opposto tenore. Mi piacciono gli ampi spazi nei quali si espande la mia esistenza giacché al momento vi mancano degli ostacoli significativi. Non serbo in me ragioni particolari per giubilare, ma sono pervaso da una serenità nient’affatto inedita che già in passato, più volte, ha dato un’impronta precisa ad alcuni periodi del mio vivere terreno.
Avrei tutte le ragioni di considerarmi un povero stronzo se non sapessi apprezzare frangenti come l’attuale. Non so se quanti si accontentino poi finiscano davvero per godere e in tutta onestà non ho ben chiaro cosa significhi quel vecchio adagio, ma con i miei moti interiori io mi oriento soppesandone la spontaneità, come se talora fossero forze a me estranee e di cui mi sia dato tutt’al più di farne misurazioni in termini d’autenticità. Non posso controllare i venti, però ho modo di stabilire la velocità media a cui spirano. Posso fare previsioni senza pretendere che si avverino, scomodando calcoli stocastici da cui posso trarre in primis come unica certezza la loro incertezza. Non cerco una ragione in ogni cosa perché il logos non può abbracciare tutta la realtà, perciò ammetto che la serenità possa sussistere senza troppe spiegazioni, inoltre è l’esperienza pregressa a confermarmi quanto ho appena scritto. Se proprio volessi analizzare la questione dovrei operare come nella teologia apofatica, ossia asserendo quanto il mio stato d’animo non sia: sarebbe un interessante modo di procedere se m’interessasse farlo.
Sottrarre dal nulla e aggiungerlo a se stesso
Pubblicato venerdì 10 Maggio 2024 alle 23:43 da FrancescoNell’atto stesso di scrivere mi sembra che io lasci cadere altrove quanto di fondamentale non riesco a cogliere. Mi viene difficile immaginare cosa posa situarsi al di fuori dello spazio e del tempo, ossia qualcosa d’estraneo alle forme a priori della sensibilità, ma una vaga intuizione, anch’essa priva di spazialità e temporalità, mi fa ritenere che simili questioni non siano mere metafisicherie. Se fosse possibile vorrei diventare un essere di luce per viaggiare nell’universo attuale e in quanti ve ne siano di limitrofi. Urta il mio senso estetico l’idea di condividere il mio destino ordinario con altri individui, giacché di fatto e in maniera variabile sono soggetto alle decisioni di chi è stato eletto per prenderle: io invece vorrei che fossi davvero libero, (“libero come un nato morto” scriverebbe Emil Cioran) dalle leggi umane e da quelle fisiche o almeno dal ciclo di Krebs. Non dibatto le ali di cui la mia specie non è munita, ma se le avessi non le agiterei troppo per protestare contro la natura e me ne avvarrei per spiccare il volo verso luoghi di potere da ricoprire col mio fiero guano.
Nei meandri del pensiero trovo sempre un vicolo cieco nel quale attardarmi per il piacere di farlo. Se non fossi preso da me lo sarei da qualcos’altro, ma in una certa misura questo avviene ugualmente e mi definisce in quanto Io, perciò non ricerco una completa alienazione da tutto e apprezzo come lieve brezza la diffusa indifferenza a cui sovente ricorro come abitudine, modo di fare e soprattutto di non fare. Il mio potere decisionale è limitato e quindi non mi cruccio più di tanto per situazioni che non ho la facoltà di cambiare, però mi chiedo se talvolta questa prassi non presti anche un indebito servizio verso circostanze su cui potrei incidere se ci provassi: talora è come se volessi perdere in partenza per non partire proprio. Che comodità!
Il signor Macron lascia intendere che l’invio di truppe in Ucraina non sia da escludere qualora lo sfondamento russo continui: per me questi abbai transalpini sono al contempo grotteschi e pericolosi. Immagino che l’intervento diretto di un paese NATO in Ucraina implichi il probabile inizio della Terza guerra mondiale e, al cospetto d’un simile scenario, è lecito supporre la sciagurata necessità di ricorrere alla coscrizione; in altre parole, se vi fosse davvero un nuovo conflitto globale, l’insufficienza delle forze regolari si profilerebbe come circostanza nient’affatto remota. Per suo conto l’Italia ha asserito che non mobiliterà truppe, ma io tendo a non credere alle parole di un ministro, specialmente quando esprimano qualcosa di buonsenso.
La leva obbligatoria non è stata abolita, bensì sospesa, perciò ogni comune italiano ha una lista di coloro che in teoria possono essere coscritti: vige anche l’articolo cinquantadue della costituzione italiana secondo il quale, con tono roboante, “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Per me, ovviamente, sono tutte stronzate. Anzitutto non esiste più alcuna patria, ammesso poi che ve ne sia mai stata una: non è più l’inizio del Secolo breve, il multiculturalismo ha annacquato ogni vaga identità nazionale vi sia mai stata, inoltre non si respira più tutta quella voglia di crepare per un vago ideale di cui in realtà beneficiano soltanto le persone di potere. Io sono un potenziale disertore e di certo non andrei ad ammazzare qualcuno su ordine altrui, ma come me sono certo che molti altri non vogliano crepare per un’astrazione fattasi repubblica. L’Italia non si chiamerà così per sempre: cambiano i toponimi, le lingue parlate e scritte, gli usi e i costumi, i confini e la memoria storica: insomma, tutto.
Qualche mese fa, girovagando in una cittadina italiana, mi sono imbattuto nella targa che ho messo in calce a queste righe. Su quella lastra abbandonata si può leggere come siano stati stigmatizzati quegli italiani che durante la Prima guerra mondiale disertarono o passarono al nemico, come se fossero stati tenuti a crepare per i loro padroni di sempre. Prima si dà l’individuo con la sua libertà d’espansione, poi questo vi rinuncia in larga parte riunendosi in società e ottenendo in cambio un certo grado di sicurezza, ma quando il contratto sociale venga meno o non convenga più, allora il singolo torna allo stato di natura e alle leggi da cui esso è normato. Sic et simpliciter.
In questo primo giorno di maggio ho udito il rumore della pioggia e mi sono mosso al ritmo dell’indolenza. Non accudisco pensieri particolari, al momento in me non vi sono fissità coscienti né attese spasmodiche, bensì un regolare flusso del tempo dal quale lascio trasportare quanto di me si dia in quest’ultimo. Prima o poi le circostanze mi chiameranno a una partecipazione attiva, ma verrà anche un momento successivo in cui quelle dovranno lasciare di nuovo il campo a momenti quasi remissivi, perlomeno all’apparenza.
Prenderei alcune iniziative se fossi certo della loro bontà, tuttavia se ne avessi una sicurezza adamantina il loro esito più fausto non avrebbe in sé quel valore che in potenza gli conferisce l’incertezza stessa. In buona sostanza chi non rischia non rosica, ma non sono tipo da esporsi per fini manducatori. La mia relazione con gli eventi non è delle più alacri né assidue, ma ci sentiamo così come in natura ogni cosa si rapporta all’altra in un certo grado. Scrivo a me e per me stesso al fine di dare ulteriore forza al mio dialogo interiore, come se io e le istanze delle mia psiche costituissimo un club privato.
Nelle immediate vicinanze scorgo distanze insanabili, perciò mi reputo caravanserraglio, oasi e deserto, tutto insieme al contempo! Chissà quante volte ho già pensato e esposto cose simili per convincermene o per descrivere un effettivo stato dell’arte. Ammesso che la libertà sia composta dalla conoscenza dei propri limiti, mi domando quando verso essi sia opportuna la riverenza e quando invece occorra sfidarne la sostanza per ottenerne il superamento. Forse un individuo da solo può fare poco, ma quel poco, banalmente, per egli può essere molto e tutt’altro che vano. Quello che manca va aggiunto o sottratto in certi calcoli? Anche questo secondo me è un quesito da porre caso per caso: adesso conti non ne faccio né ho da farne.