Sono seduto nella mia stanza rossa, ho quasi quarant’anni, è primavera e il vento spira mentre il vespro è ormai superato: per me non è il tempo di fare bilanci e tutt’al più s’appresta l’ora di unire della pasta fresca a dei broccoli altrettanto invitanti. Mi chiedo come desinino su altri pianeti ancorché io ami molto la mia formula. Talora fantastico di mangiare davanti a occhi che sappiano guardarmi, però non posso nascondere quanto io adori consumare il mio unico pasto per i fatti miei, assiso davanti a un monitor e intento ad apprendere notizie di vario tipo con piglio da comare. I giorni si cedono a vicenda il testimone mentre i più tra i testimoni dei giorni, me compreso, raramente si avvedono di come avvenga il passaggio di consegne: tutto accade e non può essere altrimenti. Sisifo spinge la roccia fino alla vetta della montagna solo per vederla rotolare giù e ricominciare la fatica: ricorda qualcuno? A me fa pensare a tutti gli esseri viventi che si sono susseguiti dal brodo primordiale fino ai concepimenti attualmente in corso: era caro al buon Sartre questo motivo, difatti vi ricorse in un suo celebre scritto per sollecitare l’individuo a instillare un senso nel proprio agire ancorché l’universo ne manchi di uno che gli sia proprio.
Cosa cerco tra i pertugi del mio divenire? A cosa voglio andare incontro o cosa vorrei che si dirigesse verso di me? Nell’illusione di darmi un tono preferisco scrivere dei desiderata piuttosto che dei desideri, ma al netto dei latinismi latita l’oggetto degli anzidetti. Quindi? Quindi niente, nulla, l’apparente meta ultima di chi al momento si attarda sull’ecumene. Accetterei di buon grado la mancanza degli accenti, o almeno il mio senso estetico ne verrebbe guastato in misura minore, se questi venissero messi copiosamente sull’affettività , la comprensione e la tolleranza, ma la natura umana è tanto Sisifo quanto la roccia che egli spinge indefesso: adesso l’acqua bolle e devo ultimare la mia cena.