Come chiunque altro sono legato alla morte da quando sono stato concepito, ma è solo da una ventina d’anni, o forse poco più, che me ne occupo. Per me la nascita non è un inizio e la morte non è una fine: ne consegue che mi trovo sempre in difetto d’onestà se le circostanze mi chiedano d’esprimere “sincere” condoglianze, tuttavia quando vengo messo alle strette pago questo dazio d’ipocrisia per non risultare inopportuno né offensivo di fronte all’altrui dolore. Io stesso mi sono trovato a gestire avversi moti dell’animo quando taluni hanno lasciato il corpo, ma non nascondo come in alcune di quelle occasioni abbia ripensato con divertimento al finale di Amici miei, caustico film di Monicelli (in origine di Pietro Germi).
In questo periodo mi trovo alle prese con uno scritto di Marie-Louise von Franz, una studiosa d’estrazione junghiana, ma ne darò conto a me stesso su queste pagine una volta terminatane la lettura. Alcuni episodi raccontati nel libro mi hanno rammentato un’esperienza analoga che feci anni e anni fa in sogno, ossia l’incontro con una luce totalizzante accompagnata da una sensazione indescrivibile: in seguito chiamai tutto questo “esperienza del bianco”, giacché fui in grado di tradurne in parole solo un vago dettaglio cromatico.
Alcune persone, senza che fossi io a entrare per primo nel discorso, mi hanno raccontato cose simili a quelle esperite da me nella dimensione onirica, inoltre ho colto forti analogie e talora una perfetta aderenza nelle testimonianze lette in molteplici testi, come se la questione in oggetto attenesse davvero all’inconscio collettivo: di ciò sono molto convinto. Sarebbe forte la tentazione di lasciare il corpo prima del dovuto se ne conseguisse la ripetizione dell’esperienza descritta, ma per crepare c’è sempre tempo e io, almeno per adesso, fretta non ne ho.
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