Certe volte ho la sensazione che io debba prendere l’iniziativa, ma in simili occasioni preferisco assumere zuccheri sotto forma di dolci o, dovendo optare per altri stati di aggregazione della materia, da bevande analcoliche in lattina. Non ho potere decisionale in certe situazioni e quindi mi limito a prenderne atto, come se dovessi redigerne un verbale ma passassi il compito a un collega remissivo. Io ci tengo alla mia testa, perciò tra i miei passatempi non figura quello di sbatterla ripetutamente contro il muro. L’insistenza non è nelle mie corde e se anche lo fosse si attorciglierebbe intorno alla sua inutilità, ergo sarebbe fine a se stessa anche se s’ispessisse a forza d’intrigarsi. Scrivere non conduce a nulla, tuttavia io non ho idea se ci sia una meta e da quanto ne so non si può parlare al conducente, ammesso che uno ve ne sia davvero.
Credo che su questo pianeta ci si attardi per abitudine, d’alba in alba, di tramonto in tramonto. Non mi aspetto granché dagli eventi né da terzi e immagino che nessuno si aspetti qualcosa da me: questo stato di fatto lo definisco equipollente. Vorrei mettere da parte le parole per tirare dentro dell’altro, ma faccio di necessità virtù e quindi mi arrangio con quello di cui dispongo: è un modus operandi di cui mi avvalgo da tanti anni. Cosa dovrei combinare? La trasmutazione del piombo in oro? La celebrazione delle nozze mistiche? L’accordo dei contrari? La notte è una giurisdizione e ognuno ha la competenza sui pensieri che la frequentano, ma questi non sono mai del tutto inediti e dunque, in ultima analisi, l’unica ragione per stupirsene è nella propria esperienza, soggettiva per definizione ed ennesima nel computo d’ogni tempo.
Sono seduto nella mia stanza rossa, ho quasi quarant’anni, è primavera e il vento spira mentre il vespro è ormai superato: per me non è il tempo di fare bilanci e tutt’al più s’appresta l’ora di unire della pasta fresca a dei broccoli altrettanto invitanti. Mi chiedo come desinino su altri pianeti ancorché io ami molto la mia formula. Talora fantastico di mangiare davanti a occhi che sappiano guardarmi, però non posso nascondere quanto io adori consumare il mio unico pasto per i fatti miei, assiso davanti a un monitor e intento ad apprendere notizie di vario tipo con piglio da comare. I giorni si cedono a vicenda il testimone mentre i più tra i testimoni dei giorni, me compreso, raramente si avvedono di come avvenga il passaggio di consegne: tutto accade e non può essere altrimenti. Sisifo spinge la roccia fino alla vetta della montagna solo per vederla rotolare giù e ricominciare la fatica: ricorda qualcuno? A me fa pensare a tutti gli esseri viventi che si sono susseguiti dal brodo primordiale fino ai concepimenti attualmente in corso: era caro al buon Sartre questo motivo, difatti vi ricorse in un suo celebre scritto per sollecitare l’individuo a instillare un senso nel proprio agire ancorché l’universo ne manchi di uno che gli sia proprio.
Cosa cerco tra i pertugi del mio divenire? A cosa voglio andare incontro o cosa vorrei che si dirigesse verso di me? Nell’illusione di darmi un tono preferisco scrivere dei desiderata piuttosto che dei desideri, ma al netto dei latinismi latita l’oggetto degli anzidetti. Quindi? Quindi niente, nulla, l’apparente meta ultima di chi al momento si attarda sull’ecumene. Accetterei di buon grado la mancanza degli accenti, o almeno il mio senso estetico ne verrebbe guastato in misura minore, se questi venissero messi copiosamente sull’affettività, la comprensione e la tolleranza, ma la natura umana è tanto Sisifo quanto la roccia che egli spinge indefesso: adesso l’acqua bolle e devo ultimare la mia cena.
Come chiunque altro sono legato alla morte da quando sono stato concepito, ma è solo da una ventina d’anni, o forse poco più, che me ne occupo. Per me la nascita non è un inizio e la morte non è una fine: ne consegue che mi trovo sempre in difetto d’onestà se le circostanze mi chiedano d’esprimere “sincere” condoglianze, tuttavia quando vengo messo alle strette pago questo dazio d’ipocrisia per non risultare inopportuno né offensivo di fronte all’altrui dolore. Io stesso mi sono trovato a gestire avversi moti dell’animo quando taluni hanno lasciato il corpo, ma non nascondo come in alcune di quelle occasioni abbia ripensato con divertimento al finale di Amici miei, caustico film di Monicelli (in origine di Pietro Germi).
In questo periodo mi trovo alle prese con uno scritto di Marie-Louise von Franz, una studiosa d’estrazione junghiana, ma ne darò conto a me stesso su queste pagine una volta terminatane la lettura. Alcuni episodi raccontati nel libro mi hanno rammentato un’esperienza analoga che feci anni e anni fa in sogno, ossia l’incontro con una luce totalizzante accompagnata da una sensazione indescrivibile: in seguito chiamai tutto questo “esperienza del bianco”, giacché fui in grado di tradurne in parole solo un vago dettaglio cromatico.
Alcune persone, senza che fossi io a entrare per primo nel discorso, mi hanno raccontato cose simili a quelle esperite da me nella dimensione onirica, inoltre ho colto forti analogie e talora una perfetta aderenza nelle testimonianze lette in molteplici testi, come se la questione in oggetto attenesse davvero all’inconscio collettivo: di ciò sono molto convinto. Sarebbe forte la tentazione di lasciare il corpo prima del dovuto se ne conseguisse la ripetizione dell’esperienza descritta, ma per crepare c’è sempre tempo e io, almeno per adesso, fretta non ne ho.
In questi giorni pasquali e ventosi mi sono dedicato alle consuete passioni, però mi sono anche reso conto di come nell’ultimo periodo ne abbia trascurate alcune per mia indolenza e non già per la mancanza di tempo. Ho quasi completato la stesura del mio sesto libro, perciò voglio contattare dei mobilifici per trovargli un posto ai piedi di un tavolino traballante: al contempo non escludo di candidarlo come fermaporta.
Non so come si faccia a non essere autoreferenziali, quindi le espressioni della mia creatività si devono misurare soltanto con il mio gusto: l’assenza di velleità artistiche mi fa nuotare in acque diverse dal mare magnum in cui, loro malgrado, si cimentano quanti si propongano a terzi. Nella corsa invece è diverso perché Krónos è un’entità oggettiva e quindi posso avere un confronto con quello stesso tempo che tutto scandisce sebbene non esista: un paradosso a cui io sono legato da vincoli d’entusiasmo. Contemplo l’idea della morte mentre apprezzo in sommo grado la mia vita e mi chiedo se possa chiedere di più alla mia età: sì, potrei, ma se avanzassi ulteriori richieste peccherei di creanza, buon gusto, tatto e sarei più maleducato di quanto già non sia quando dimentico di tirare lo sciacquone a seguito di una bella cacata. Voglio tanto bene al gatto Heidegger e qualche volta lo penso mentre coltivo i miei passatempi, però non mi rattrista l’idea che il tempo a nostra disposizione sia limitato e non lo considero un cafone quando sia lui a dimenticarsi di far scorrere l’acqua dopo una sua deiezione.