Non so se l’equinozio di primavera me l’abbia voluto portare in dote o se io vi sia incorso a circa cinquecento metri sopra il livello del mare, quota a cui sono assurto quest’oggi correndo, ma colgo nell’aere un certo entusiasmo che sento e faccio mio. Non importa se gli eventi mi arridano o mi siano avversi, ma nell’attuale punto del calendario gregoriano provo sempre un senso di rinascita e rigoglio, come se una forza archetipica, antica quanto il mondo stesso, agisse su di me; come se? Invero io credo che sia proprio così.
Ne consegue che in questo periodo non posso allestire spettacoli endogeni in cui lo spleen sia un convincente protagonista. Mi domando come l’inconscio individuale e collettivo inneschino una simile dinamica, però mi accontento d’intuire il loro ruolo di primo piano e non pretendo di sapere più di quanto sia in grado di comprendere. Cerco di adeguarmi alla forma del tempo corrente e alle sue proprietà transitorie, nella viva speranza che mi riesca sempre meglio fino all’ora della mia morte. Ho educato me stesso al pessimismo, al disincanto, all’ironia caustica, alla decostruzione e al registro grottesco, tuttavia in questa notte di marzo mi sembra che nulla possa andare storto: irreale e quindi magico questo mio sentire.
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