Da lungo tempo è giunto il momento di appiedare le didascalie, ma talora mi trovo a condurle sulle parole che prendo in prestito dalla mia lingua madre: scrivere è un atto di successione e parlarsi addosso è un modo come un altro per prendere le distanze, qualunque esse siano.
Comprendermi mi preme più che farmi comprendere a meno che non debba farmi comprendere da me stesso. Il monologo è il dialogo capitale, intendendo con ciò quello tra le varie istanze dell’individuo: non vedo altri soggetti oltre il soggetto medesimo. La forza dell’abitudine rende tutto a misura della misura scelta più o meno consciamente.
Secondo me il fascino della connessione con altre entità risiede proprio nella sua incompiutezza annunciata, nella ricercata lucidità che tutto abbaglia. Sono presente a tempo determinato e mi muovo nel recinto delle mie rappresentazioni, però queste non sono i limiti ultimi della realtà propriamente detta: è scontato, è banale e proprio per questo si tratta di una verità subdola, capace di sottrarsi all’attenzione in ragione della sua ovvietà.
Si può discettare su ogni tema, tanto è remoto il pericolo che le parole muovano qualcosa oltre all’immaginazione, ma già se questo fosse il caso non sarebbe poco. A me resta quanto ho seminato e basta per me solo, tuttavia se avanzasse qualcosa lo tirerei fuori l’indomani o nella prossima vita. Sarebbe bello se qualcosa fosse diverso e lo sarebbe altrettanto se qualcosa di già diverso lo fosse di nuovo in rispetto a se stesso: c’è il ghiribizzo del cambiamento.
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