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La pena di morte è una misura di civiltà

Le statistiche comprovano la violenza di genere, ma secondo me il fenomeno dev’essere inteso come violenza tout court qualora se ne legiferi in maniera efficace. Oggi in Italia un omicida ha buone probabilità di rifarsi una vita, difatti le conseguenze per un carnefice non sono irreversibili come quelle della vittima. Nella mia nazione immaginaria certi reati sono puniti con la condanna a morte, ma a patto che non sussista dubbio alcuno sulla colpevolezza dell’imputato.
Alle pene severe va riconosciuta la funzione di deterrente senza la pretesa che la svolgano sempre, in qualunque caso, giacché non è possibile prevenire tutti gli eventi delittuosi, ma la prospettiva di una morte per fucilazione secondo me farebbe desistere taluni da certe iniziative: il gioco varrebbe la candela anche se finisse per salvare una sola vita innocente. Hegel credeva fermamente nella pena di morte a differenza di quella sciagura chiamata Beccaria, perciò a chi non la considera utile io rispondo che l’assenza della stessa risulta persino più inutile. Non riesco davvero a capacitarmi di come le leggi italiane siano così garantiste e umane contro chi, di propria sponte, abbandona la propria umanità: è un’istigazione a delinquere.
L’educazione può svolgere un ruolo preventivo, ma la repressione e la pena retributiva secondo me sono gli strumenti principali per contenere le violenze, inoltre alcune persone hanno un’indole malvagia e per costoro non v’è processo pedagogico o percorso formativo che regga. I legislatori italiani vogliono mantenere il garantismo per gli assassini, ma pretendono anche che Abele motu proprio si astenga da certe condotte: la loro inazione e la mancanza di coraggio delegano a terzi (gli assassini, appunto) quella violenza che inevitabilmente pervade il mondo e di cui lo Stato, nella mia visione di società, dovrebbe gestire la portata (facendosene interprete con pene violente) poiché non è possibile eradicarla del tutto.

Francesco

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