Le catastrofi costringono certi soloni a un fatale bagno d’umiltà, a ulteriore riprova di quanto gli elementi siano imprevedibili. Per me le forze che si scatenano all’esterno sono speculari ai moti interiori, in un reciproco rapporto di rappresentazione. Può accadere ciò che non può essere neppure immaginato e dunque il margine di controllo è ridotto all’osso, spesso a quello del collo di chi possiede illusioni egemoniche sulla natura o su se stesso.
L’altrui sofferenza fa eco a quella potenziale di chi accoglie la prima nella propria empatia e negli immediati dintorni d’ogni simile afflato, ma non può che risuonare come i sussurri del vento nella proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere. Non è sempre facile dosare le parole e forse il più delle volte sarebbe meglio se non fossero mai esistite, però la natura discorsiva della coscienza non può farne a meno giacché in principio, si dice (appunto), era il Verbo.
Resto ai margini dell’esistenza, sugli argini del fiume eracliteo, consapevole di come anch’esso, prima o poi, sia destinato a esondare. Quanto profondità devo ancora sondare benché siano affiorate con la nascita. Attorno a me il silenzio va in frantumi e si ricompone in un costante compromesso tra l’ambiente circostante e le possibilità delle coclee. Non ho idea di quale ardua sentenza spetti ai posteri, ma anche loro ricorreranno ai cinque sensi (più uno in omaggio) per le loro deliberazioni. Tutti hanno il proprio posto a sedere e a defungere nella cronologia degli eventi, ammesso che il tempo esista e passi senza salutare. Io me ne resto in disparte giacché l’ubiquità non mi è propria.
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