Talora la stanchezza offre alla malinconia l’occasione di tendermi agguati proditori, ma queste imboscate si concludono sempre in un bagno di sangue che non è il mio. La mente vuole scherzare con il fuoco e allora è giusto che si bruci con la viva fiamma della lucidità. Rasento l’invulnerabilità quando mi riesca di concentrarmi e mantenermi presente a me stesso: in questa pratica v’è qualcosa di miracoloso e riprova come nell’individuo, latente e sopito, si annidi tutto ciò di quanto egli abbisogna.
La riduzione del sonno, l’improvviso sconvolgimento dei ritmi circadiani e la frammentazione del riposo mi ricordano quanto l’umore sia in balìa delle circostanze, degli accadimenti, di piccole modifiche alla routine, ma l’anzidetta lucidità può fare da argine alle influenze più mendaci, a quei convincimenti che cercano di farsi strada tra dubbi di circostanza per piantare radici venefiche.
Cosa accade a quanti non si avvedano di questo meccanismo? Come vengono tritati emotivamente coloro che non sappiano cogliere gli ingranaggi e gli automatismi di simili dinamiche? In che misura attenta a sé chi non sta attento a sé? Mi sforzo di ascoltare tutti i campanelli d’allarme e, quando niente rompa il silenzio, mi metto io a suonarne uno come allerta al cospetto di caratteri sospetti: dlin, dlon. Non ho bisogno di vaccinarmi per evitare che l’altrui negatività mi contagi, difatti mi basta ricorrere al razzismo nei confronti di chi, consciamente o meno, se ne renda veicolo. Rispetto la distanza di sicurezza per rispettare me stesso e di per sé non mi alletta la prospettiva di gettare un ponte come forma d’evasione fine a se stessa: certe cose tolgono più energie di quante ne restituiscano e poco importo se dall’altro capo del cosmo o del tavolino via sia la più alta depositaria della beltade.
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