Agli sgoccioli del calendario gregoriano non mi figuro nulla d’inedito giacché la fine di un anno e l’inizio del successivo hanno carattere puramente formale. Non ho progetti né per il trentuno né per l’avvenire tutto, ma posso contare una spontanea disciplina che allieta i miei giorni e mi fa appartenere al tempo di cui dispongo.
In quest’epoca di facili contagi permane l’influenza dell’altrui scoramento, perciò mantengo oggi come ieri le debite distanze da quanti siano portatori, interpreti o appassionati di sventura e, di nuovo, io non faccio mistero del mio solipsismo. Non ho la facoltà di aiutare nessuno e non possiedo nulla da condividere, ma rivolgo i miei più sinceri auguri a quanti navighino in acque burrascose: che gli dèi vi assistano. Non ho fiducia in nessuna idea, in nessuna persona, in niente, tuttavia tale mio scetticismo è fondato su una convinzione filosofica e non scaturisce da una qualche esperienza incresciosa che mi abbia portato a dire “amici amici e poi mi rubi la bici”. Non mi arrovello per il futuro né colgo l’attimo, ma non cerco neppure di accomodarmi nel passato e in altre parole, ugualmente criptiche, sembra quasi che io non esista: in tutta onestà codesta prospettiva non mi turba. Lascio ad altri l’onere di definirsi o addirittura d’essere. Anch’io sono un oggetto ontologico, però non m’identifico in questo ruolo più del dovuto e mi accontento del sei politico: non vedo quale sia il problema di farsi rimandare in un gioco di rimandi. Si parla tanto per parlare, si scrive tanto per scrivere e si vive tanto per vivere o almeno questo è il punto massimo a cui obtorto collo sono disposto a spingermi.
Mi affido alla lucidità di Max Stirner per raffreddare i timidi esordi di un inverno troppo mite, ma le sue parole risuonano in me e mi riportano alla mente convinzioni un po’ banali a cui già anni or sono pervenni autonomamente. Sono cosucce che amo ricordare a quanti pretendano d’irretirmi con i loro "associazionismi" di varia risma.
Per me l’umanità è soltanto una coazione a ripetere, molteplice espressione di un egoismo primario (e primevo) che talora assume aspetti edificanti, persino salvifici all’apparenza (appunto), mentre in altri casi si mostra con sembianze abiette, ma sempre in qualità di mentite spoglie a cui, per amor del vero, v’è da preferire le omologhe cadaveriche.
La prole è un frutto egoistico, l’altruismo è paradossalmente egoistico, la giustizia è un’idea arbitraria che cambia a seconda delle latitudini e difatti ogni potere ritiene la sua "sacra": insomma, un bel merdaio, no? La legge è sì uguale per tutti, ma per tutti quanti siano uguali tra loro (gendarmi, signori e signore dell’aeropago di turno, pubblicani di varia estrazione, ometti e donnette con un minimo di potere e via discriminando).
La specie e i suoi ergastoli chiamati "pargoli": che ilarità, che ridere, che defungere.
Ottima penna quella di Chatwin: sagace, disincantata e con una grande proprietà di sintesi. Secondo me questi resoconti patagonici oscillano tra un taglio da saggio storico e una prosa alla Kerouac, in una commistione di stili che a mio parere giova al ritmo delle lettura.
Quella raccontata da Chatwin è l’Argentina più remota, agreste e ostile in un arco di tempo che abbraccia il secolo decimonono e il primo Novecento, in cui risuonano gli echi delle migrazioni europee, il latifondismo inglese, le differenze tra stranieri e autoctoni, l’impraticabile via della lotta di classe e gli avvicendamenti politici. Chatwin ha il doppio merito di dispensare caustica ironia nelle sue cronache senza che al contempo la prosa gli si riduca semplicemente a quello: in un efficace gioco di equilibri persino i molteplici cenni naturalistici risultano avvincenti e non promanano mero nozionismo.
Io consegno a In Patagonia un’ulteriore chiave di lettura ed è quella che verte sul modo in cui vengono delineati i profili psicologici di alcuni soggetti: in quelle descrizioni non vi sono soltanto i peculiari racconti di esistenze inconsuete, bensì sguardi acuti sulle ambizioni, i fallimenti e l’incomunicabilità d’umana fattura. Alla fine del viaggio nel viaggio (nessun refuso) trovo conferma del mio apprezzamento per questo tipo di letteratura odeporica benché non ne sia un accanito fruitore.
Ho scoperto che Werner Herzog, un regista a me caro, ha realizzato un film (Nomad) ispirato all’interessante figura di Bruce Chatwin, ma devo ancora vederlo e non mancherò di farlo (a meno che io non manchi tosto).
Nei rispettivi eccessi e decessi le società umane hanno come fattori comuni la sopraffazione e un sistema di caste più o meno esplicito. In paesi come l’Iran e la Cina i governi reprimono senza scrupoli le audaci proteste dei dissidenti, con buona pace di quello stato di diritto nel cui nome, altrove (come in Occidente), invece si lasciano correre episodi di grave allarme sociale e non viene fatto abbastanza per prevenire atti di criminalità efferata, perlopiù in ragione di una tendenza perdonista secondo cui vittima e carnefice non sono poi così diversi, ma anche per un’ubriacatura dei cosiddetti diritti umani che è cosa altra rispetto a un ragionevole garantismo.
Nel Vecchio Continente non esistono contromisure efficaci per la delinquenza, perciò il crimine autoctono e straniero agisce in maniera sempre più impunita e disinibita, incentivato dalla tenuità delle eventuali conseguenze e, per quanti provengano da paesi severi, anche da un paragone spesso invitante con il sistema penale del proprio luogo natio: insomma, vale la pena provarci a ogni livello. Sotto un certo aspetto cambia poco se un individuo sia un sicario o un semplice vandalo, difatti le sue azioni non gli prospettano mai scenari che egli reputi davvero punitivi e quindi la sua condotta finisce per dipendere da un’etica di cui, evidentemente, manca. A causa di un simile lassismo alla legge ordinaria de facto subentra quella della giungla, un ritorno illico et immediate allo stato di natura, dove si salvi e prevarichi chi può.
La “giustizia” funziona a intermittenza, è una lotteria dalle estrazioni lente, pachidermiche, a cui i meno scafati non possono che rassegnarsi così come si accetta una malattia terminale. È tutto aleatorio e pro forma, perciò la tutela del singolo è delegata ai suoi santi in paradiso, ammesso che ne abbia o possa ingaggiarne qualcheduno.
Di converso i regimi totalitari agiscono in maniera brutale per mantenere lo status quo e talora, sulle ali dell’emotività con cui nel “civile” Occidente (così quest’ultimo si definisce) si apprende ogni genere di efferatezza, viene quasi da giustificarne i mezzi, come se l’essere umano non meriti né possa essere governato altrimenti a causa del suo attuale livello di coscienza.
Credo che ogni comunità umanoide vada pensata a invarianza di odio e punizione, come se qualcuno fosse sempre chiamato a macchiarsi le mani di sangue: nel caso dei regimi totalitari è perlopiù lo Stato, il Leviatano hobbesiano a sporcarsi, in altri luoghi invece anche i normali cittadini possono impiastricciarsi a detrimento dei loro simili. Per quanto si possano edulcorare gli individui con grandi proclami e costituzioni (nate comunque dalla violenza), essi non restano che animali da ripartire in prede e predatori. Ha senso mettere al mondo qualcuno che debba accettare preventivamente tutto questo? Secondo il mio trascurabile parere assolutamente no.
Circa un mese fa ho composto e registrato il terzo brano di un mio umile progettino musicale che risponde al nome de Il nipote di Franca e con somma euforia, senza celare l’ottimismo da cui sono pervaso, l’ho intitolato Entusiasmi da eutanasia.
Come al solito la mia parte preferita è l’assolo di chitarra benché io non abbia la tecnica di uno shredder. Il testo invece l’avevo scritto per un’altra cosa e ne ho adattato la metrica. Adoro le possibilità offerte dagli strumenti virtuali e i suoni che posso ricavarne, perciò mi dedico a queste cosette autoreferenziali che pubblico solo quando scatti in me lo spontaneo desiderio di riascoltarmele.