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Riverbero d’autunno prossimo venturo

Sin dall’infanzia venti e nembi suscitano dentro di me un senso di profonda appartenenza alla tempesta di cui essi sono temibili latori. Le forze meno rassicuranti della natura evocano qualcosa d’ancestrale che s’insinua nel mio individualismo e lo esalta, laddove tutto confluisce e assume sembianze soggettive a tempo determinato. Nelle bufere e nelle piogge la dissoluzione parla di sé e del suo avvento, ma questa prospettiva non può suonare funerea né nefasta a chi sappia accordarle il suo inesorabile ruolo. Mi domando cosa pensassero quanti nacquero e morirono nudi nelle terre preadamitiche, quali fossero le loro percezioni e come si rapportassero alla propria finitudine.
Non so di preciso in quale punto della mia parabola io mi trovi e non conosco cartografi che possano dirmelo, tuttavia mi sento al di là del presente e dunque riesco a districarmi nelle sue espressioni più precarie e meno concilianti. Il continuo dialogo interiore mi aggiorna sulla equidistanza dalla maggior parte delle cose e in questa maniera mi risulta semplice calcolare la traiettoria più agevole con cui seguire la linea del tempo. Lo ripeto a me stesso affinché mi sia chiaro: non so quanto manchi al termine del viaggio. Serafico e conflittuale il divenire si dispiega a prescindere da quanti vi partecipino per inerzia con la maschera del libero arbitrio. Non credo molto ad altro scambio di parole all’infuori di quello che sia endogeno, ma forse qualunque discorso, anche quello tra sé e sé, in un’ultima analisi è un ronzio di fondo da cui niente promana davvero. Oggi avevo voglia di astrazioni e le ho somministrate a queste pagine virtuali su cui ancora insisto e mi attardo a dir di me: nulla v’è d’aggiungere.

Francesco

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