Qualche sera fa ho guardato per la prima volta questo vecchio film danese e l’ho apprezzato in sommo grado. La storia è basata su un’opera teatrale e secondo il mio modesto parere la regia ne tradisce l’origine già dalle prime sequenze piuttosto statiche, ma credo che tale caratteristica giovi alla trasposizione stessa. La pervasiva religiosità del racconto si esprime con profondità diverse a seconda dei personaggi, perciò la gamma della fede è illustrata da un capo all’altro della convinzione, ossia da chi ne è rapito a chi invece l’ha smarrita e perlopiù ciò avviene entro i definiti confini di una famiglia che è la protagonista corale della narrazione.
Su tutte a me è piaciuta il la figura estraniata, estatica e quasi profetica di Johannes Borgen, giacché per suo tramite la parola (questa è la traduzione di ordet dal danese) rivela il senso ultimo dell’opera, ma tale epifania segue una parabola all’inizio della quale Johannes appare come un folle, un alienato, una persona malata e la scena più bella secondo me consiste proprio in un suo discorso alla nipote (la figlia di suo fratello e della morente Inger) mentre la macchina esegue un lento e splendido movimento semicircolare. In una spontanea associazione d’idee Johannes mi ha fatto venire in mente una vaga rassomiglianza con Rasputin per la sua aurea di misticismo e per le fattezze dell’attore che lo ha impersonato.
In seno alla vicenda principale del racconto va a inserirsi e a risolversene un’altra, più prosaica, che riguarda l’amore tra l’ultimogenito di Morten Borgen (il pater familias) e la figlia di un uomo che intende la fede in maniera diversa rispetto ai Borgen. Quando ho visto il film non sapevo di cosa trattasse, ma l’impronta teologica mi è parsa evidente sin dall’inizio e tuttavia non ha inficiato la mia fruizione dello stesso. Pellicola eccelsa.
È un caldo afoso quello che avvolge la sera dalla quale scrivo e nulla sembra poterne ridurre l’impatto in tempo utile per gridare al miracolo climatico. Già che mi trovo al mondo ne approfitto per scrivere qualcosa sebbene io stesso non abbia un’idea precisa da mettere nero su bianco. Se mai avessi avuto delle vere aspettative adesso mi ritroverei nell’età giusta per cominciare ad ammirarne il tramonto, ma non ho nulla né nessuno da utilizzare come feticcio per una nostalgia transitoria. La vita passa e manco la saluto, tuttavia spero che la mia disattenzione non venga intesa come uno sgarbo. Non ho in sospeso debiti di riconoscenza e nessuno né ha nei miei confronti. Le cose da fare potrebbero essere molteplici se solo fossi disposto a raggiungere un livello di stress sufficiente che finisse per farmele disprezzare. Evito per quanto mi sia possibile ogni genere d’impegno che implichi il confronto con la volontà altrui: mi basto per abitudine, per cause di forza maggiore, per comodità e per pigrizia.
Non mi è nota l’ora della mia morte, o perlomeno non mi è stata comunicata né per posta né in sogno, di conseguenza non so quanto mi resti da vivere e non me la sento di azzardare calcoli, inoltre non tiro a indovinare né sotto l’incrocio dei pali, bensì campo per i fatti miei e mi vedo autoreferenziale fino al termine delle trasmissioni sinaptiche. Manca sempre qualcosa anche quando tale impressione risulti assente dalle percezioni, ma poco importa e nulla cambia: per me è fondamentale che io riesca ad accordarmi con il luogo e le circostanze di mia pertinenza. Tutto il resto va da sé, al di là che qualcuno se ne avveda o meno, oltre la testimonianza di ogni coscienza: è così da miliardi di anni e lo sarà per le scomparse venture nei silenzi dei mondi.
Dalle mie parti l’invasione dei moscerini ha obnubilato la guerra in Ucraina e le crescenti tensioni a Taiwan, quindi per evitare densi nugoli di insetti non vorrei vedere la luce in fondo al tunnel nemmeno se me la passassi male: per la medesima ragione credo che lo stesso Gesù Cristo rimuoverebbe le batterie dalla propria aureola qualora decidesse di tornare da queste parti.
Dall’agone politico odo personaggi di scarsa caratura che fingono di scornarsi su questioni più grandi di loro mentre tenzonano con le rispettive bassezze per l’insalubre mania del potere.
Sovente la quotidiana e celere lettura delle cronache fa rimbombare un pensiero al mio interno: “Qualcuno tocchi Caino”. Sento un odioso e costante retrogusto di amarezza nell’avvicendarsi instancabile d’ogni ingiustizia, perciò in estate tento sempre di addolcire il sapore della realtà con i ghiaccioli alla menta e con qualche bevanda zuccherata.
Quanto si prospetta non è detto che accada, così come spesso un’ombra si dimostra mendace ambasciatrice di ciò da cui è proiettata, ma le apparenze in una qualche misura contano lo stesso al netto degli inganni di cui sono capaci e frequenti latrici. Personalmente vorrei smettere di credere persino alla verità e appendere il giudizio al chiodo come in un atto di filosofica epochè, ma solo per dedicare le mie attenzioni ad altro: le regole del cricket, le bolle di saliva, la contemplazione dei cantieri aperti assieme a un collegio di baby pensionati e via discorrendo, nel perenne deperire che definisce l’esistenza stessa e di cui i sacchetti biodegradabili costituiscono un monito a portata… di mano.
Per me Fitzcarraldo è un film che sfugge a qualunque etichetta e regola fissa, infatti lo ritengo un’opera sui generis la cui visione mi ha lasciato impressioni del tutto inedite nel mio rapporto con il cinema. Quando vedo Klaus Kinski sullo schermo mi domando sempre dove finisca il personaggio e dove cominci la persona, ma questo mio dubbio intriso d’ammirazione immagino che scaturisca anche dai vari racconti su di lui: secondo una di queste storie gli indios dissero a Werner Herzog che se lui lo avesse voluto loro avrebbero fatto fuori Kinski a causa delle intemperanze di quest’ultimo.
Le panoramiche sulla foresta e le inquadrature strette su Fitzcarraldo per me restituiscono delle immagine plastiche, vere e proprie fotografie che rendono iconiche più di una sequenza. A mio parere è un film oscillante tra il sublime e il grottesco, tra il surreale e il documentaristico, tra l’improbabile e l’impossibile, ma in tutto questo mantiene la barra dritta un po’ come la nave che riesce ad affrontare l’acqua del fiume e le asperità della montagna. Le chiavi di lettura sono molteplici e oltre a quelle intenzionali ognuno può trovare le sue, ma di quest’opera io tendo a fare un’esperienza estetica piuttosto che ricamarci sopra concetti prometeici sulla relazione degli esseri umani con la natura e sé stessi.
Kinski è davvero uno dei pochi attori che sa catturarmi con la sola mimica (anche minima) facciale e secondo me il suo carisma travalica gli schermi di ogni grandezza. V’è anche stupenda Claudia Cardinale, ma in realtà persino l’ultima delle comparse rende il tutto unico, come nel più celebre degli ossimori: una lucida follia.
Banco Del Mutuo Soccorso ad Abbadia San Salvatore
Pubblicato lunedì 1 Agosto 2022 alle 23:51 da FrancescoDomenica, all’imbrunire, mi sono avventurato lungo le tortuose strade amiatine che serpeggiano fino ad Abbadia San Salvatore e là ho assistito a un concerto del Banco Del Mutuo Soccorso. L’ultima volta che avevo visto il gruppo dal vivo risaliva a dieci anni fa, quando ancora sia Francesco Di Giacomo che Rodolfo Maltese non avevano lasciato i rispettivi corpi.
Non sapevo cosa aspettarmi da questa nuova formazione, ma la curiosità e l’entusiasmo mi hanno spinto ugualmente a guidare per un totale di circa duecento chilometri: alla fine non me ne sono pentito! Ho trovato fin da subito una band eccezionale di cui avevo già visto i nuovi innesti con altre formazioni (il batterista dei Metamorfosi e il bassista de Il Balletto Di Bronzo), un Vittorio Nocenzi in forma e un Tony D’Alessio che sa rendere omaggio e giustizia alla voce del Banco senza imitazioni né forzature!
La scaletta ha attinto dai grandi classici del gruppo e ne ha coperto un po’ tutta la discografia, compreso l’ultimo convincente album pubblicato ormai un po’ di tempo fa, ossia Transiberiana. Mi è piaciuto ogni singolo pezzo e mi hanno divertito gli aneddoti raccontati da Vittorio Nocenzi, ma per ragioni personali i momenti che mi hanno esaltato di più hanno riguardato i brani tratti da Darwin!, dal cosiddetto Salvadanaio (il primo album omonimo) e una grandiosa esecuzione di Canto nomade per un prigioniero politico.
Io sono arrivato pochi minuti prima che il concerto cominciasse e mi sono messo subito in prima fila dove sono rimasto, come rapito ed estasiato, fino alla fine. È stata davvero una bella serata e il pubblico presente si è dimostrato molto partecipe, inoltre è stato un evento gratuito in seno alla locale festa della birra ove io, da astemio e contrario agli alcolici, non ho trovato niente a parte la musica: e mi pare poco? Lunga vita al Banco!