La mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.
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