Di Bergman amo molto Luci d’inverno perché in quel film secondo me egli riesce a sondare gli abissi dell’esistenza attraverso l’accurata descrizione di uno strazio teologico, inoltre adoro il modo in cui affronta l’ineluttabilità della finitudine ne Il settimo sigillo e in entrambi i casi il mio profondo apprezzamento è anche di natura estetica (oltre alla regia ne ammiro il peculiare bianco e nero), ma è ne La fontana della vergine che a mio parere riesce a coniugare la luce e il buio nel più efferato dei modi.
Anche in quest’ultimo film, in particolare quando il padre di Karin viene inquadrato di spalle e si rivolge verso l’alto dei cieli, avverto quel silenzio di Dio che solitamente è attribuito al nome della trilogia composta dal già citato Luci d’inverno, da Il silenzio e da Come in uno specchio.
Forse soltanto ne Il settimo sigillo avverto un’eguale evocazione degli archetipi, ma nel caso de La fontana della vergine immagino che dipenda anche dall’ispirazione medievale su cui si basa la storia. A mio parere anche il tema della vendetta è preminente sebbene emerga con tutta la sua forza solamente nella parte finale della pellicola. Per me la narrazione è un crescendo che ha due punti apicali nella plastica, favolosa e iconica scena dello sradicamento di un piccolo albero e quando la testa dell’ormai defunta Karin viene sollevata. All’inizio fiabesco fa da contraltare una ridda di tratti che appartengono al concetto di ombra junghiana, o almeno questa ne è la mia percezione, ma proprio da tale opposizione scaturisce a mio avviso il significato ultimo dell’opera di cui ognuno può discutere davvero solo ed esclusivamente con la propria coscienza.
La fontana della vergine di Ingmar Bergman
Pubblicato venerdì 29 Luglio 2022 alle 00:20 da FrancescoCosì ridevano di Gianni Amelio e Velluto blu di David Lynch
Pubblicato venerdì 22 Luglio 2022 alle 15:55 da FrancescoDi recente ho rivisto Così ridevano, un film di Gianni Amelio datato 1998 che con un taglio molto cupo (come l’eccelsa fotografia) e crudo racconta il fenomeno dell’emigrazione nella Torino novecentesca a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e la metà dei sessanta.
A mio parere si tratta di una pellicola complessa, tutt’altro che didascalica e con lo scoglio dei molteplici dialetti (prevalente è quello catanese) nei dialoghi, ma quest’ultima scelta stilistica secondo me arricchisce il risultato finale al ragionevole costo di una fruizione un po’ più ostica. Sono un estimatore di Enrico Lo Verso e ne apprezzo la recitazione anche nelle opere meno riuscite perché non manca mai di convincermi come attore, specialmente nella mimica facciale, perciò anche in questo suo ennesimo connubio con Gianni Amelio trovo che offra un’ottima prestazione. Oltre che d’emigrazione, la storia affronta il rapporto tra fratelli e si abbevera all’ampia gamma di espressioni umane in uno scontro tra culture che va dalla pietà all’omicidio. Ognuno dei sei momenti in cui è scisso il film in realtà non mi trasmette nulla di episodico e ciò è dovuto al sottobosco umano che ne risulta un perfetto collante, quindi la narrazione scorre bene e non subisce forzature ancorché si svolga sull’arco temporale d’oltre un lustro.
Non mi considero un accanito amante del cinema di Lynch sebbene uno dei miei film preferiti (Una storia vera) porti proprio la sua firma, tuttavia ho colto l’occasione di guardare un suo lavoro del 1986 intitolato Velluto blu (Blue velvet in inglese). Non avevo aspettative di sorta e alla fine la visione mi si è rivelata gradevole, con un giusto grado di tensione e coinvolgimento sebbene io nella settima arte invero cerchi distanza e contemplazione. Non sono in grado di collocare questo film in un solo genere, ma di sicuro rientra parzialmente nei crismi del thriller. Evito di riassumere la trama giacché i miei appunti sono perlopiù una stentorea traduzione delle mie impressioni, ma nell’evoluzione della storia ravviso persino un accenno al film di formazione, difatti sulla scorta delle ombre e di una metafora (quella dei pettirossi) il protagonista finisce per arrivare alla luce. Le atmosfere sono stupende, a tratti oniriche secondo quanto vi ho percepito, ma di sicuro ospitano molteplici e assai criptiche sfumature che forse riuscirei a cogliere solo se mi cimentassi in visioni plurime.
Tra il quindici e il sedici luglio del corrente anno
Pubblicato sabato 16 Luglio 2022 alle 00:15 da FrancescoAccuso molto il caldo di questo periodo, tuttavia non posso che assolverlo anche nelle ore più assolate del giorno e lo faccio con la formula piena della massima protezione solare. La metto sull’allitterazione giacché non v’è un altro piano sul quale mi sia dato di trattare la questione né io intendo aggiungere un posto a tavola per onorare assenze attuali e venture. Non so se ognuno abbia ciò che meriti, ma io non faccio il benché minimo sforzo per ampliare certi aspetti della mia esistenza e finisco addirittura per compiacermene: è la forza dell’abitudine.
Non sono bravo a disegnare, ma non è questa la ragione per la quale non sono in grado di abbozzare il mio futuro. In parte mi lascio vivere dagli eventi e in parte no, ma il risultato finale è quello di una piena sospensione sul tempo che scorre e onestamente non mi disturba affatto. Forse ho perso e continuo a perdermi delle cose, ma l’importante è che non smarrisca le chiavi di casa. Per fortuna non mi attendo nulla e non ho spedizioni giacenti da ritirare in qualche deposito, ma se il fato avesse in consegna qualcosa di buono a mio nome vorrei che prima si recasse a un indirizzo sbagliato per sfidare in seconda battuta la cosiddetta fortuna, ammesso poi che quest’ultima esista davvero e non sia invece un’espressione di comodo.
Sento che mi manca qualcosa, non posso negarlo, però in frigorifero ho dello yogurt alla pesca da bere che mi fa immaginare il mondo come se vi prevalessero coloranti, additivi e zuccheri raffinati. E forse sarebbe davvero così se il consumismo fosse alla portata di tutti. A chi mai dovrei chiedere informazioni? V’è un numero per chiamare l’Iperuranio? Su quali operatori che non siano matematici posso o devo fare riferimento? Le domande di solito si trascinano dietro le loro omologhe per imbucarle nel gran baccanale dell’irresolutezza. Sono vivo, se non sbaglio.
Non mi reputo un cinefilo e quindi non sono in grado di redigere nulla di oggettivo sulla settima arte, ma posso appuntare il mio apprezzamento quando l’esperienza di un film lasci su di me una forte impressione e proprio questo è successo con l’interpretazione di Casey Affleck in Manchestery by the Sea.
Per me l’opera diretta da Kenneth Lonergan è intrisa di una profonda malinconia non soltanto in ragione delle tematiche, ma soprattutto per come vengono affrontate e a mio parere già la sola fotografia fornisce un grosso contributo in tal senso. Banalmente mi sento di riassumere la storia come la catabasi di un uomo che si trova a fare i conti con le proprie tragedie e con i dèmoni che gli sono stati assegnati dal corso degli eventi. Anche l’andatura “rilassata” del film dà corpo all’atmosfera di cui sopra e non ultimo pure l’ordine della narrazione il quale, con l’uso del flashback, vi aggiunge un’efficacia ulteriore.
Adeguata e accostabile alla prima trovo plausibile una seconda lettura a queste due ore di cinema, ossia quella di un’elaborazione del lutto che passa attraverso il rapporto del protagonista con i personaggi minori (tali per lo spettatore, non per lui). Non so se dietro, dentro o sopra questa pellicola si annidino messaggi particolari, ma io ne serbo l’idea di un percorso inesorabile in cui il riscatto e la rinascita non sono banalizzate dalla retorica né dalla loro spettacolarizzazione e proprio per questo mi risultano credibili. Nessuna forzatura nei dialoghi, nessun artificio per saturare l’emotività giacché anche i picchi drammatici secondo me traspaiono spontanei e convincenti, come se più che un film si trattasse del tragico racconto di un vecchio amico in una serata oscillante tra l’amarcord e l’esistenzialismo.
Ho appreso che il ventuno luglio Samantha Cristoforetti effettuerà un’attività extraveicolare assieme a Oleg Artemyev e la notizia mi ha fatto pensare a quante volte ho immaginato cosa si provi in una circostanza simile: avere il mondo sotto di sé e l’ignoto tutt’attorno mentre la stazione spaziale segue la propria orbita come se fosse una giostra. Scrivendone rinnovo in me lo stupore che non manca mai di rapirmi alla sola idea di tutto questo. Cosa incontrano gli occhi laddove persino la più fervida immaginazione dimostra poca autonomia e scarsa gittata? Echeggiano in me le celebri parole con cui Carl Sagan ebbe a definire il pale blue dot, ossia questo granello sospeso in un raggio di fotoni sul quale ancora m’attardo a vivere.
Cosa può competere con la sensazione di guardare tutto da lontano, laddove le domande primigenie prendano nuova forma in ragione della distanza davanti a cui si ripresentino?
Il buio, il silenzio, sé stessi e il nulla in un quieto istante che si protrae nella misura in cui si è capaci di alienarsi innanzi a quanto supera l’individuo e lo avvolge senza reali protezioni: la precarietà della vita che interroga se stessa. Io delineo la questione in termini esistenziali benché sia preminentemente scientifica, ma cosa sono la tecnica e la ricerca se non mezzi attraverso i quali l’umanità si rispecchia nella propria ignoranza, anche al netto di quanto non si avveda o si dimentichi nella sua smemorata violenza? È questo l’ordine dei pensieri che sento destarmisi davanti alle azioni più audaci e alle idee pionieristiche.
Tutte le interviste e le conferenze di astronauti che ho ascoltato, non ultime quelle dell’immensa Samantha Cristoforetti, mi hanno fatto sentire su una comune lunghezza d’onda e non hanno mai mancato di avvincermi. Ho un profondo rispetto e una stima sconfinata verso quei pochi uomini e donne che sono riusciti a diventare la punta di diamante della specie. Su miliardi di individui solo uno sparuto gruppo di persone concorre ancor oggi a spostare l’asticella della conoscenza umana, quindi mi sento fortunato a vivere in un’epoca che mi permette di assistere a ciò, come se ciò riuscisse quasi a giustificare tutto il resto.
Il lutto di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa
Pubblicato sabato 2 Luglio 2022 alle 17:33 da FrancescoLa mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.
È il primo di luglio e mi ritrovo a vergare queste stracche parole su pagine che mai ingialliscono. Sento odori e voci provenire dai ristoranti limitrofi, parole che si uniscono e si dividono come rumori mentre arrivano fin dove possono. Non ho idea se io adesso mi trovi nel luogo giusto al momento giusto o se in passato abbia peregrinato in una simile sovrapposizione, però non so neanche se possa dirsi corretta la ripartizione dello spazio e del tempo in termini dicotomici.
A volte percepisco un senso di smarrimento che in qualche modo mi rincuora, in altri momenti invece ho l’impressione che il cielo sia fatto di vetro e stia per andare in frantumi, cosicché sulla Terra finiranno per camminare soltanto i fachiri. Le ipotesi futuribili mi affidano piccole incertezze da adottare, ma io cerco sempre di renderle orfane il prima possibile per la seconda volta e non rivendico nemmeno la paternità dei miei pensieri. Le mie confidenze sono racchiuse nei soliloqui e negli scarabocchi estemporanei come questo. Non ho niente da condividere, nulla da dare e non mi aspetto di ricevere alcunché, perciò ho i conti in pareggio mentre taluni oltre a quello di bilancio mancano anche di altri equilibri. Non sono in grado di fornire ulteriori spiegazioni a quelle che non ho mai dato e di cui invero nessuno mi ha mai chiesto conto, perciò aggiungo silenzi a silenzi e omissioni a omissioni in ragione di una comoda pigrizia. Ripeto a me stesso quello che già so per andare sul sicuro benché nulla di simile esista davvero. Potrei esprimermi a cuore aperto se già non lo facessi, ma potrei anche farne a meno se solo lo volessi. Sono il mio interlocutore privilegiato per ovvi motivi e tale nepotismo non mi turba. Mi chiedo cosa dovrei cambiare di queste righe se volessi imprimere loro un senso esplicito, ma se poi provassi davvero a farlo mi troverei a rispondere a una domanda più difficile: perché?