Qualche sera fa ho visto l’adattamento cinematografico di un’opera teatrale intitolata Barriere che narra l’umile quotidianità, i contrasti, i conflitti irrisolti e le turbe esistenziali di una famiglia afroamericana in quel di Pittsburgh a metà del Novecento.
Non conosco il lavoro originale di August Wilson intitolato Fences e quindi non ho idea di quanto la trasposizione sia riuscita, ma il film mi è piaciuto molto perché è riuscito a catturarmi con i suoi dialoghi, difatti essi ne sono il vero cardine e in più di un’occasione rasentano il monologo in bocca al protagonista, Troy Maxson, una promessa mancata del baseball e severo pater familias interpretato da un intenso Denzel Washington, davvero convincente, il quale per l’occasione si è anche fatto carico della regia.
Le conversazioni delle dramatis personae sono sempre pervase dal disincanto e dall’asprezza, anche nei frangenti più distesi, ma questo tratto conferisce ulteriore spessore al contesto sociale che ne fa da sfondo. Parecchie scene si svolgono nella casa della famiglia Maxson dove un’altra eccelsa prova di recitazione viene offerta da Viola Davis come moglie di Troy. Non ho accusato le oltre due ore del film in quanto ho trovato un ritmo costante nel racconto e mi ha meravigliato il modo con cui la mia attenzione è stata avvinta da una soluzione narrativa tutt’altro che esente da rischi.
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