Non conoscevo la storia delle proteste sudcoreane che nel 1980 portarono al massacro di Gwangju, un brutale episodio su cui è basata l’interessante pellicola di Jang Hoon.
Il protagonista è un tassista di Seoul, vedovo, squattrinato e con una figlia da crescere, quindi pronto a non farsi scappare la possibilità di un facile guadagno che gli si profila nel momento in cui viene a sapere quanto è disposto a pagare un giornalista tedesco per recarsi a Gwangju, teatro di forti manifestazioni studentesche di cui lui sembra pressoché ignaro, immerso com’è nelle sue preoccupazioni quotidiane.
In base a quanto ho letto pare che Jang Hoon si sia preso qualche licenza all’inizio del racconto rispetto a come i due personaggi principali si siano effettivamente conosciuti, ossia il tassista Kim Man-seob e Jurgen Hinzpeter, inviato dell’emittente tedesca ARD.
Secondo me il grande pregio del film è racchiuso nello sviluppo interiore del protagonista e nel ritmo credibile con cui viene seguito, difatti Kim una volta entrato a contatto con gli eventi inizia a sentirsi combattuto tra quanto desidera e ciò che invece egli ritiene giusto fare, così finisce per mettere in discussione se stesso e alla fine, aggiungo io, per conoscersi.
Secondo me alcune scene rischiano di offrire il fianco a una certa retorica, ma forse il parziale ricorso a quest’ultima è un po’ inevitabile quando vengano trattate certe vicende e ammesso anche che sia davvero così queste comunque non inficiano il valore dell’opera.
Un altro punto di forza del racconto risiede nell’abile sfruttamento del gap linguistico, difatti Kim parla poco inglese e Jurgen non conosce neanche una parola di coreano, ma questo ostacolo viene ribaltato in un vantaggio narrativo: tale espediente permette di allargare la comunicazione oltre i confini del solo linguaggio verbale con un risultato a mio parere tanto efficace quanto verosimile. Anche la cadenza dei momenti concitati in alternanza con le scene più distese e riflessive gode secondo me di un equilibrio perfetto. Insomma, A taxi driver mi è piaciuto moltissimo e mi ha portato a conoscenza di un fatto storico di cui non sapevo nulla benché io in Corea del Sud ci sia pure stato circa quindici anni fa.
Da qualche parte nel mondo cadono ordigni e le pallottole viaggiano ad altezza d’uomo, altrove invece quegli stessi eventi gettano ombre che preannunciano scenari similmente distruttivi: in entrambi i casi v’è un crollo verticale e un effetto domino di cui le altrui esternazioni dànno conto in maniera più o meno diretta con o senza il concorso di una volontà cosciente.
La minaccia pende come una spada di Damocle e l’angoscia che attanaglia taluni s’ingenera dalla natura indecifrabile del pericolo, ossia dall’impossibilità di tracciarne una forma la cui attendibilità abbia i crismi dell’immediatezza: tutto è vago e opaco nei nembi prospicienti il golfo delle certezze, come se i primi fossero sul punto di fagocitare ogni caposaldo.
Cosa si oppone a come si oppongono gli uni contro gli altri che a loro volta vedono terzi opporsi al loro opporsi? Non ne ho idea, ma dubito che in questo caso si possa fare affidamento su entità trine ed è evidente di per sé come in tali circostanze il terzo non goda, anche perché tertium non datur o almeno così sembra. Quello che è giusto differisce da quanto è opportuno o forse fa comodo pensarla così per alleggerire la coscienza e mantenere le luci accese senza rinunciare all’una né alle altre, quando invece taluni sono chiamati ad abdicare alla vita per le proprie idee e per i propri simili. Tutto o niente accanto a tutto e niente, ma così passa la gloria del mondo. Vi sono questioni più grandi di me sulle quali io posso confezionare solamente pensieri parzialmente riciclati, come in una sorta di economia circolare delle opinioni. Non si butta via niente tranne la vita. Adombrarsi serve a poco, ma può darsi che aiuti a compensare il pallore sebbene etica ed estetica siano intrecciate in un tutt’uno: un palazzo divelto e ancor di più un cadavere sfigurato dicono molto in questo senso con i rispettivi silenzi.
Di ovvie ipocrisie ed evenienze belliche
Pubblicato venerdì 11 Marzo 2022 alle 21:48 da FrancescoL’auspicio della cosiddetta pace incontra il mio favore, ma ritengo quest’ultima come in perenne subordine all’interesse personale di chi la sostenga. Su un certo piano non v’è distinzione tra chi spera nella fine di un conflitto per salvaguardare le proprie abitudini, i propri averi, le proprie certezze e chi, invece, condivide la stessa aspettativa per avvicinare il mondo alla sua visione dello stesso: in altre parole a me sembra che certe esternazioni procedano quasi sempre da meccanismi di identificazione e appagamento sebbene questi siano celati a livello conscio dalla pavidità in un caso e dall’ideologia nell’altro.
La parvente empatia verso i popoli in lotta è proporzionale all’insistenza con la quale le notizie vengono diramate e alla portata con cui le disgrazie altrui gettano un’ombra minacciosa sul proprio ordine delle cose, infatti poco sconcerto, apprensione e interesse destano i conflitti che si svolgono a certe latitudini, quasi come se i primi definissero le seconde e fossero endemici a certi inferni terrestri. Non scrivo codeste cose per indicare con stucchevole retorica l’ipocrisia imperante, bensì come mio costume mi limito a sottolineare l’ovvio affinché resti tale nella mia mente e non assuma le illusorie sembianze di cui sopra.
La solidarietà ha una matrice adattiva ed è l’arma in più di chi non ne voglia altre, ma nell’essere umano albergano millenni di sopraffazione e la mutua distruzione è una tendenza di cui forse la specie non si libererà mai. Può darsi che in capo ad alcune settimane o nell’arco di qualche mese la guerra si espanda dalle ex repubbliche sovietiche fino al cuore dell’Europa: chi lo sa? A me non piace l’odore della morte e non amo le città coventrizzate, ma prima di tutto ho in orrore queste cose perché me ne sento minacciato e solo in un secondo (per quanto immediato) tempo per un senso di viva partecipazione alle sciagure dei miei simili: talora l’onestà è brutale. Non so come mi comporterei se mi ritrovassi a imbracciare un fucile per proteggermi, tuttavia ho paura di quello che potrei diventare per combattere e di quello con cui poi dovrei convivere se riuscissi a non farmi ammazzare.
In questi tempi di facile sconforto ravviso un’idea predominante, la quale invero fa sempre da sfondo alle vicissitudini umane e ne costituisce l’orizzonte ultimo, perlomeno sotto la ristretta prospettiva biologica, ossia quello della morte.
In Ucraina esistenze innocenti vengono spezzate anzitempo dal braccio armato della politica estera e dalla tendenza alla sopraffazione che alberga negli uomini da sempre, benché in debite proporzioni e con rapportate capacità di nuocere: laggiù le persone non riescono a vivere; altrove, come in Italia, individui parimenti innocenti ma già consunti da malattie terminali o da condizioni simili, si vedono invece privati del diritto a una fine dignitosa.
Da una parte la vita non riesce ad affermarsi, perché la sua negazione più atroce per modi ed entità, ossia la belligeranza, si scatena e agisce anche contro coloro da cui è servita con riverenza; in astratta e speculare opposizione a questa inveterata circostanza, giacché la storia umana dimostra come i popoli abbiano eletto ad abitudine il reciproco annientamento, vi è l’impossibilità di morire per propria scelta, autodeterminandosi, per eludere sofferenze inutili.
I due piani si possono sovrapporre solo idealmente, tuttavia risuona in me questo paradosso: chi vuole abbracciare la vita non può farlo in quanto vi viene strappato con forza, chi invece la vita la vuole salutare in un ultimo rito di somma libertà e catartico distacco, è costretto a protrarre il proprio dolore in ragione di questioni puramente formali, politiche, ideologiche, per le quali non vi è morfina che tenga. In buona sostanza ma in cattiva sorte, al di là di quali siano le dinamiche specifiche di queste due situazioni, ossia la guerra e l’opposizione all’eutanasia, la morte ne è il tema comune, il fil rouge che Atropo, la più anziana delle Parche, recide troppo presto o troppo tardi. Si muore, soleva affermare Heidegger per riferirsi al concetto di si impersonale, ma la fine altrui in realtà invita sempre a riflettere sulla propria.
Non mi considero un cinefilo, ma ogni tanto mi trovo a compulsare la settima arte per ricavarne degli spunti con cui arricchire il mio immaginario. Sulla scorta di ciò un po’ di tempo fa sono approdato a delle recenti produzioni nipponiche e quella che più mi ha colpito è stata la pellicola di Hirokazu Koreeda risalente al 2018.
Il film descrive un Giappone lontano dalla sua immagine idilliaca e vicino a quello di una famiglia che si barcamena tra espedienti, piccoli furti e segreti, ma nella quale trovano spazio anche sentimenti di affetto e una profonda umanità. A mio avviso l’opera ha un taglio sociale e si nutre delle contraddizioni di cui si rende latrice. Ogni personaggio ha un profilo preciso e contribuisce all’economia di una narrazione scorrevole, mai banale, tuttavia per me il ruolo più riuscito è quello dell’anziana Hatsue, interpretata da Kirin Kiki: immensa attrice nipponica deceduta pochi mesi dopo l’arrivo del film nelle sale e di cui ho adorato anche un’altra pellicola della quale scriverò in futuro.
Mi è piaciuta molto la fotografia, in particolar modo negli ambienti chiusi, così come ho ravvisato un’opera di rara sensibilità in certe inquadrature che fanno parlare piccoli gesti o minime alterazioni dei muscoli facciali. Non sono un esperto di recitazione, perciò valuto in maniera del tutto soggettiva le prove attoriali in base al grado di convinzione che suscitano in me e in questo caso il livello è risultato massimo. In buona sostanza si tratta di un racconto agrodolce, fatto di cinismo, pentimenti e tragiche redenzioni che a tratti mi è sembrato un saggio sulla natura umana. Non ho percepito l’opera come un semplice atto di denuncia né come un tentativo di subordinare la sociologia a un esercizio di stile, bensì ho apprezzato la crudezza del suo verismo per mezzo di un perfetto connubio in cui forma e sostanza finiscono per equivalersi.