Il grande maratoneta Toshihiko Seko una volta disse: “The marathon is my only girlfriend”. E, mutatis mutandis, anch’io dubito che sia in grado di soffrire altrettanto per un essere senziente. Non tutte le ciambelle escono col buco né tutti i colpi di stato finiscono con la presa del potere (ne sa qualcosa uno dei figli della Thatcher).
Ieri mattina per saltare in aria non ho scelto un’amena località del Medio Oriente, bensì la culla del Rinascimento. Alla maratona di Firenze sono partito con l’idea d’inseguire il mio primato personale o almeno di correre appena sotto le due ore e quaranta minuti come due settimane fa a Ravenna. Passaggio ai diecimila metri in 36:48, alla mezza maratona in 1:18:21 e ai trenta chilometri in 1:52:25, ma da trentunesimo in poi ho iniziato ad avvertire i prodromi dell’ipoglicemia e il calo è stato esponenziale. Dulcis in fundo, a centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito un principio di crampo al quadricipite femorale sinistro, perciò ho tagliato il traguardo camminando, ma ho chiuso in un onesto 2:53:02, la trentanovesima volta su trentanove sotto le tre ore.
L’ossimoro giusto è quello di “buon fallimento”, infatti quel tempo con il tracollo finale indica comunque che sto bene. Ho esagerato un po’ nelle ultime tre settimane e il corpo me lo ha fatto notare, però amo la corsa proprio per questa sua perentorietà. Può darsi che a livello muscolare abbia risentito del trail della scorsa settimana, invece la défaillance ipoglicemica la imputo all’inappetenza dei giorni precedenti. Al prossimo giro… giropizza.
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