I saggi storici di Hopkirk mi hanno indotto a soppesare La via per l’Oxiana, un libro di viaggio che ho finito per leggere con particolare piacere e coinvolgimento. Al di là della loro vocazione diaristica, anche nelle pagine di Robert Byron vi sono elementi di divulgazione in subordine alle vicende personali, una commistione questa che secondo me infonde un ottimo ritmo al testo e lo rende scorrevole benché sia piuttosto corposo.
La narrazione copre un arco temporale di undici mesi e comincia nel tardo agosto del 1933 in quella che una volta fu La Serenissima. Il modo di descrivere gli incontri e le situazioni, l’ironia più o meno velata con cui Byron rende conto delle proprie e delle altrui vicissitudini, così come lo stupore che talora prorompe dalla sua penna davanti a squarci paesaggistici o ad alcune opere architettoniche, a tratti mi hanno ricordato la scrittura di Tiziano Terzani al quale immagino che quest’autore non fosse sconosciuto.
Ho trovato interessante la sezione persiana che restituisce un’immagine del paese ancora lontana dalla rivoluzione di Khomeini, ma anche la parte dedicata all’Afghanistan mi è risultata utile per intuire da dove nasca e si trovi ancor oggi quella continuità che sta a fondamento dei suoi recenti “sviluppi”.
Mi ha divertito il giudizio negativo e inclemente di Byron sui Buddha giganti che furono scolpiti nella roccia a Bamiyan, infatti mi sono immaginato cosa egli avrebbe detto se avesse vissuto abbastanza per apprenderne la distruzione operata dai talebani nel 2001.
Oltre ai profili autoctoni, dal racconto emergono anche le tensioni politiche tra Russia e Regno Unito sebbene residuali rispetto a quelle raccontate dalla penna del già citato Hopkirk, perciò lo scritto contiene anche sporadici accenni al modus vivendi delle rappresentanze occidentali in un contesto così diverso dalle loro patrie. Per quanto breve, ho trovato pregevole e a mio parere stilisticamente eccelsa l’introduzione di Bruce Chatwin, un altro scrittore su cui prima o poi dovrò investire del tempo.
Come al solito, e per quanto possibile, ho integrato la lettura con la consultazione di mappe satellitari e fotografie recenti per ricavarne un’idea visiva dei luoghi descritti.
La via per l’Oxiana di Robert Byron
Pubblicato giovedì 30 Settembre 2021 alle 10:34 da FrancescoNell’incedere dei giorni correnti e venturi
Pubblicato mercoledì 22 Settembre 2021 alle 07:48 da FrancescoUn altro autunno s’insedia sulle incipienti macerie della stagione vacanziera e io assisto per l’ennesima volta a questo cambio della guardia. Rivendico una certa continuità interiore al netto delle ore di luce e delle prenotazioni alberghiere. Mi piacciono i posti spogli, istantanee di nature morte da cui talora i miracoli si ergono come unici dignitari. Non pretendo che la realtà mi stupisca, però mi mancano un po’ le sorprese nelle merendine, subdole latrici di grassi saturi.
Il tempo prepara con cura cattive notizie e le distribuisce all’uopo, ma queste vengono recepite con differente sensibilità dagli individui e ogni tanto non risultano funeste come appaiono. In quale libro sacro è descritta la netta differenza tra bene e male? O forse questa distinzione si annida in un volumetto fuori catalogo che ormai si trova solo nel mercato dell’usato. Sono restio a seguire i lenti sviluppi di un divenire che mi appartiene sempre di meno, perciò volgo la mia attenzione altrove e ne traggo tutto il vantaggio possibile. Non ho aspettative e a mia volta non mi faccio attendere perché non ho stabilito appuntamenti col destino, però non posso escludere che quest’ultimo prima o poi decida di presentarsi lo stesso al mio cospetto e senza la buona creanza di annunciarsi.
Il senso di precarietà avvolge ogni cosa e la candida al ruolo d’imminente disastro, ma troppe riflessioni su ciò che è in potenza rischiano di paralizzare la volontà, l’azione, la scelta, insomma tutto il parentado del libro arbitrio. Il corso degli eventi si dipana in cicli e momenti di rottura, in schemi ripetitivi nei quali talora cambiano soltanto gli interpreti e a seguito di cui, talvolta, non vale la pena di fasciarsi la testa neanche dopo che questa si sia davvero rotta. Cerco di non farmi soverchiare dalle idee oppressive giacché si tratta di una partita concettuale dove il pensiero si presta a campo di gioco e patibolo. Osservo distanze di sicurezza, mantengo debiti distacchi e le salubri lontananze mi beneficiano più di quanto l’occhio sappia cogliere, ma non è importante che qualcuno se ne avveda.
Non amo molto le strade capitoline perché ivi respiro un senso d’imminente decadenza che stride con l’alone d’eterno splendore di cui l’Urbe si fregia e questo contrasto non manca mai di suscitare in me una sorta di repulsione. È una giungla metropolitana e a ogni angolo si possono avere problemi perché lo Stato è spettrale benché vi risiedano le sue più alte istituzioni, perciò quando ci metto piede mantengo sempre alta l’attenzione.
Insomma, l’altro ieri nella Mogadiscio d’Italia, ossia Roma, ho corso la mia trentaseiesima maratona, la ventiquattresima sotto le 2 ore e 50 minuti. Credo che l’orario anomalo, il periodo quasi equinoziale e la possibilità di un caldo settembrino abbiano scoraggiato le iscrizioni, perciò con il tempo finale di 2 ore, 49 minuti e 31 secondi sono riuscito a classificarmi ventiquattresimo assoluto, ottavo italiano e secondo di categoria: l’altro SM35 ha corso in… 2 ore e 8 minuti.
Puntavo a fare almeno 2 ore e 45 minuti, perciò sono transitato alla mezza in 1 ora e 23 minuti con l’idea di provare il negative split, ma al venticinquesimo chilometro ho capito che non era la giornata giusta e così l’ho portata in fondo senza distruggermi. Alla partenza ho confabulato un po’ con Re Giorgio che sette giorni prima aveva corso una cento chilometri in Olanda… Quando nella prima griglia sono entrati gli atleti africani ho avuto la decenza di mettermi dietro di loro invece di restare davanti.
Una costante nel cambio delle stagioni
Pubblicato sabato 11 Settembre 2021 alle 03:43 da Francesco
In questi giorni di fine estate penso alla morte più del solito e mi abbandono volentieri alla sua contemplazione poiché la considero naturale, ma simili riflessioni volteggiano pacifiche in me e non sono i mesti segni di una tempesta emotiva. Non mi appartiene nulla di ciò che mi circonda, però l’abitudine alla mediocrità continua a farmi rivendicare il possesso di qualcosa: un oggetto, queste stesse parole, un’identità e altre inezie del genere. Non sono ancora all’altezza di rinunciare a me stesso tutto d’un colpo e invero manco ne avverto il bisogno perché voglio prolungare il mio soggiorno su questo pianeta, quantomeno entro i limiti di una dignitosa autosufficienza, ma sento che il mio legame con l’attuale grado della cosiddetta realtà si sta allentando piano piano e questo mi rincuora poiché al momento del distacco dal corpo conto di farmi trovare preparato. Insomma, mi sto facendo le ossa da seppellire.
Non posso affrontare discorsi del genere con persone ordinarie, sebbene l’impiego di questo aggettivo richieda prima una definizione del sostantivo a cui rimanda, tuttavia non sono in vena di spiegazioni né intendo tagliare quelle di cui sono dotato, perciò mi diletto in soliloqui autoreferenziali o in appunti di tale risma per il gusto del dialogo interiore.
Il mio entusiasmo di vivere si traduce ogni giorno nei molteplici interessi che coltivo, nella rinnovata sete di sapere e nelle buone abitudini con le quali ammanto la mia condotta, ma al contempo non mi nego l’icastico, utile e salubre piacere del disfattismo e non vedo nel solo scopo di prevenire una contraddizione formale con le inclinazioni di cui sopra una ragione bastevole per astenermi da tutto ciò. Non mi piacciono l’ottimismo sfrenato né la nostalgia, sono due articoli che cerco di evitare e in merito spero di raggiungere presto le emissioni zero. Il mio messaggio per i posteri lo affido a un vecchio adagio: “Sono cazzi vostri!”.
Non trasudo disprezzo e mi libero delle tossine con l’attività fisica, però non voglio neanche essere coinvolto nei destini ultimi della specie, almeno non più di quanto già implichi la mia sola presenza in questo tempo e in questo spazio. Le verità assodate hanno già le loro schiere di ierofanti e detrattori, io non ne cerco di assolute e soprattutto non ho come passatempo quello di convincere terzi per secondi fini né per una causa prima.
Ieri sera, dopo oltre un anno, ho rivisto il banchetto del mio amico Angelo al mercatino dell’antiquariato, un piccolo evento a cadenza mensile che è ricominciato anche dalle mie parti benché in misura ridotta. Sono anni che preferisco le chiacchiere con lui e il cosiddetto diggin’ nei suoi scaffali agli asettici acquisti online, inoltre ha dei buoni prezzi e un’ottima selezione di vinili per i miei gusti. Ero curioso di vedere cosa si fosse portato dietro dopo così tanto tempo, quali nuovi dischi avessero trovato spazio nella sua esposizione e poi volevo sapere come aveva affrontato la lunga chiusura di cui anche la sua attività itinerante è stata oggetto.
Abbiamo parlato per due ore degli argomenti più disparati con un’ironia caustica e tipicamente toscana mentre io scartabellavo le copertine e così alla fine, tra una battuta e l’altra, ho trovato ben tre dischi di mio gradimento, ovvero “Marching Out” e “Trilogy” di Yngwie Malmsteen e “Pilgrimage” dei Wishbone Ash! Mi piace tanto contemplare i vinili, ragionare a lungo sul loro eventuale acquisto, riporne uno e prenderne un altro solo per poi rimetterlo a posto e riprendere quello scartato prima in virtù di un’intuizione imprevedibile. Non ho dischi costosi perché la musica preferisco ascoltarla piuttosto che collezionarla in pregiate edizioni e quindi trovo giusto pagarla in misura accettabile per darle valore, ma se avessi la disponibilità economica probabilmente mi procurerei una raccolta strepitosa di vinili per unire i due intenti.
Io reputo Malmsteen un chitarrista imprescindibile e un personaggio divisivo, ma amo il cosiddetto shredding di cui lui è un paradigma. Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di assistere a un suo concerto, però mi esalto sempre quando ascolto “Live In Leningrad“. Mi manca il primo album, “Rising Force” del 1984, per avere in vinile i dischi che prediligo della sua discografia e non mi ci vorrebbe nulla a comprarne una copia economica su Internet, magari su Discogs.com et similia da cui di tanto in tanto mi regalo qualcosa a prezzi popolari, ma aspetto di trovare un’occasione simile dal vivo per instillare un ricordo personale nella cosa in sé, ossia un valore ulteriore che non è monetizzabile.
Non mi sono ancora procurato il vaccino all’ultimo grido e intendo restare fuori moda fino a quando non ne sarà prevista l’obbligatorietà, però sono immune a qualsiasi forma di nostalgia e difatti non ne provo. Cerco di trovare nel presente più stimoli di quanti ne offrano gli spazi che esso offre alle aspettative future e ai rigurgiti del passato. Non avverto il bisogno di travasare il mio tempo in qualcun altro né in un ideale, però amo condividerne un po’ con alcuni gatti di mia conoscenza nella stessa misura della loro disponibilità, al netto dei croccantini e delle deiezioni.
In questo mesto pianeta vi sono grandi possibilità per l’odio, il risentimento, la crudeltà, la cattiveria gratuita, ma a questa pletora di male cerco di opporre l’amor proprio e non mi cimento in guerre né battaglie che risultino al di là della mia portata. Non sono un egoista, bensì un aspirante autarchico. Non ho fiducia nei miei simili e non credo nemmeno alla verità, perciò posso saltare a piè pari quelle menzogne che già da lontano si presentino come tali. Non ricevo su appuntamento per i prossimi eoni, ho troppe galassie da visitare sotto molteplici forme d’esistenza. “Non torno subito”, farò scrivere sulla mia lapide o forse lascerò questo proposito nell’astratto campo delle intenzioni e, più prosaicamente, me ne sbatterò i coglioni.
Per manutenere il presente coltivo interessi e passioni edificanti, tuttavia non affretto la loro opera qualora le circostanze non mi permettano di accelerarne le procedure, difatti se mi crucciassi per l’anticipo della loro realizzazione finirei per tradire lo scopo precipuo del loro perseguimento, ovvero una forma di corrispondenza e un certo grado di adesione al cosiddetto presente. Svincolo dai dettami di un tempo (im)propriamente detto per non affrontare pastoie maggiori di quelle che già predefinisce ogni esistenza in quanto tale.
Ho molti spunti da assecondare e per mio personale gaudio mi sarebbe piaciuto che essi avessero già preso forma, ma in ogni campo gli sviluppi di un iter sanno sottrarsi alla pretese di chi voglia calendarizzarne ogni aspetto. A volte non si può avere tutto e subito, altre non si può mai avere niente, ma tra questi antipodi vi sono scenari ibridi che costellano la volta delle volizioni e conferiscono loro parte del senso ultimo di cui si fanno latrici.