Questo saggio divulgativo di George Musser mi ha attratto per la sua questione centrale, quella della località, un’astrazione scontata a livello macroscopico ma tutt’altro che ovvia nel mondo subatomico e a velocità relativistiche. Il testo si apre e indugia un po’ in un parziale riassunto della storia della fisica, un passaggio obbligatorio per una corretta introduzione al tema benché io abbia affrontato già altre volte preludi analoghi in scritti simili.
La località e la non-località implicano molteplici approcci allo spazio-tempo e difatti anche a quest’ultimo è riservato il giusto… spazio! Secondo me nel testo una delle suggestioni più importanti e feconde verte attorno alla diversa concezione dei buchi neri, rispettivamente dalla prospettiva della teoria della gravità e da quella dei quanti, le grandi protagoniste in cerca di una terza teoria che si presenti come loro unificatrice: per la prima l’ingresso in un buco nero è irreversibile, la seconda invece ne contempla l’irreversibilità. Inoltre, allo stato attuale, in virtù del fatto che la velocità e la posizione di una particella non sono indipendenti l’una dall’altra, le teorie anzidette vìolano il principio di località qualora si provi a combinarle, giacché così una particella può essere al contempo in due punti diversi o essa può trovarsi in punto e la sua energia in un altro.
Nella seconda metà del libro vi è l’esposizione di plurime ipotesi che hanno come paradigma d’elezione proprio i buchi neri e la possibile rivisitazione dell’idea di spazio-tempo, ma qua e là vi sono anche brevissimi sussulti in punta di filosofia, come quando, tramite una citazione del primo Novcento di Mach, Musser suggerisce come l’uomo debba le sue rappresentazioni temporali alla mutUa dipendenza delle cose.
Si è trattato del mio ultimo saggio con questo tipo di taglio “potabile”, difatti, come mi ero riproposto un po’ di tempo fa, ho cominciato a colmare le mie lacune matematiche nella speranza che un domani io possa avere i mezzi per affrontare un testo più tecnico su tali argomenti. Anche in ragione di questo modus operandi, e con lo scopo di dare varietà al mio (lento) studio da autodidatta, ho reintrodotto delle letture umanistiche al vaglio dei miei investimenti di tempo.
Si avvicina la sagra elettorale con ricchi appalti e cotillons, animatori e talora ballottaggi di gruppo: il dado è tratto ed è finito nel brodo. Statisti in erba da ambo le parti prospettano rivoluzioni copernicane, ma a me interessano molto i giardini pensili che sorgeranno a seguito della loro palingenetica elezione: tanta voglia di Babilonia.Personaggi di grande levatura corrono sulle orme di Solone, convinti delle proprie convinzioni in ragione degli stessi pleonasmi e tautologie per cui l’acqua è bagnata, forti del grande merito di essere simpaticissimi, inseriti nel tessuto necrotico sociale e, soprattutto, assidui banditori di aperitivi et apericene.
Talora reduci da una potestà genitoriale fallimentare o da una stagione a Candy Crush inferiore alle attese, avranno modo di entrare nell’humus politico per risorgere a nuova vita e irradiare la res publica. Costoro mi appaiono sotto forma di post sponsorizzati su Facebook che io, qualunquista d’accatto, blocco sempre illico et immediate insieme ai loro autori, e ciò a prescindere dalla squadra di calcetto politico a cui fanno capo. Me misero! Me tapino!
Forse se avessi meno pudore persino io potrei candidarmi, d’altro canto non ho né arte né parte e mi mancano competenze specifiche benché abbia sempre cura di abbassare la tavoletta dopo ogni pisciata. Non so cosa sia la democrazia, è un’astrazione di cui non colgo la quintessenza; d’acchito mi ricorda molto la Corrida della buonanima di Corrado, ma forse a un’analisi più accurata, almeno nella sua concezione moderna, essa può essere definita come l’incontro dello Hobbes con le giovani marmotte.
Non so quale sia l’alternativa e neanche confido nella sua esistenza, tuttavia vedo una buona candidata (questa sì) nella quinta fase del lutto, ossia l’accettazione.
E Kabul cadde come corpo morto cade
Pubblicato domenica 15 Agosto 2021 alle 23:23 da FrancescoSeguo la nuova ascesa dei talebani in Afghanistan e per tenermi aggiornato sugli sviluppi raccolgo filmati amatoriali a cui aggiungo delle didascalie imparziali, infine carico i risultati sotto forma di collage riassuntivi sul mio canale YouTube, ordinati in una playlist di conflitti bellici.
In questo modo riesco a procurarmi una visione d’insieme e ad approfondire questioni che, fatta eccezione per certe agenzie di stampa estere tra cui Reuters e Associated Press, sono trattate quasi sempre con un certo ritardo e approssimazione rispetto ai tempi e ai modi di Internet.
Se fossero ancora vivi mi piacerebbe leggere i punti di vista di due miei corregionali, Tiziano Terzani e Oriana Fallaci, ma forse basta sfogliare le pagine di qualche loro vecchio articolo per capire come, in fondo, nulla sia cambiato da allora.
Da quanto ho visto e letto non mi sembra che in Afghanistan vi siano molti individui pronti a immolarsi per la democrazia, a riprova di come quest’ultima probabilmente è stata sostenuta perlopiù da chi l’ha usata come pretesto per ragioni egemoniche ed economiche.
Molteplici filmati in diverse città del paese ritraggono la popolazione autoctona che accoglie entusiasta l’arrivo dei talebani, perciò la rapida ascesa degli insorti implica anche un certo grado di concorso da una parte dei civili.
Le similitudini con la guerra in Vietnam si sprecano, però forse quella afghana ha come aggravante l’illustre precedente del sud est asiatico, il quale con il senno di poi non è servito da monito. Miliardi e miliardi di dollari, eccidi, distruzioni, sindromi da stress post-traumatico e altri cosiddetti “danni collaterali” per nulla. L’occupazione del paese è iniziata con dodici anni di operazione “Enduring Freedom” ed è finita con un talebano, probabilmente sotto l’effetto d’oppio, che danza allegramente in un palazzo governativo.
La democrazia non è un valore universale e pretendere che lo sia, almeno a questo stadio della storia umana, rasenta quello stesso fanatismo contro cui essa si leva, perciò la caduta di Kabul offre anche questa chiave di lettura e ricorda le tante sfaccettature della mia specie.
È difficile sconfiggere chiunque sia disposto a farsi martire per un’idea. Con estrema lucidità e obiettività va dato atto ai talebani di possedere un indomito spirito guerriero, il quale ha avuto la meglio su tutti i propositi più o meno buoni dell’Occidente; Occidente che, secondo me, deve considerare questa sconfitta come foriera di futuri attentati nei suoi confini sempre più aperti e instabili.
Bruciano le campagne mentre le speranze non ardono più. Scelte divisive incendiano le piazze e raffreddano i rapporti tra consimili, perciò tutto cambia affinché nulla muti. Non capisco di preciso cosa pretenda il genere umano da se stesso e dalle società di cui si compone, ma neanche ci tengo a saperlo. Le decisioni possono essere giuste o sbagliate rispetto a una morale di riferimento, però la facoltà di prenderle spetta soltanto a chi stringa il coltello dalla parte del manico. V’è sempre un dominus, sia esso un tiranno, un principio costituzionale, un pensiero unico, un’assemblea di cittadini nata da libere elezioni o il bambino che ha portato il pallone.
Le utopie democratiche ed egualitarie sono vocazioni precoci di una specie che al momento non è in grado di reificarle, perciò restano mere astrazioni a uso e consumo di chi abbia bisogno di identificarcisi per rendere più tollerabile il suo soggiorno su questo pianeta efferato.
Vent’anni fa il mondo assistette in rapida sequenza ai fatti del G8 di Genova e agli alati attentati dell’undici settembre. L’Occidente cambiò, ma in realtà dopo quell’estate rimase lo stesso per chi allora non era ancora nato o era troppo piccolo per concepire un termine di paragone.
Ognuno è figlio della propria epoca e affinché quest’ultima partorisca un’altra deve lasciare orfana la sua prole. Non alberga in me nostalgia alcuna, non credo a un’inverosimile età dell’oro e non faccio previsioni su un futuro che mi riguarda sempre di meno.
La mente mi consente di viaggiare verso pensieri più edificanti e forse meno mendaci a parità d’illusione. Mi concentro su dinamiche in cui l’uso della parola è sconsigliato affinché l’esperienza non venga compromessa. Anelo a nuovi stati di coscienza, e forse si tratta di una delle mie poche ambizioni, ma credo che sia la più autentica. Ho una tensione spirituale a cui non so conferire davvero una forma scritta od orale, è qualcosa d’ineffabile che posso ricercare solo in rari momenti di estrema presenza. Non riesco né voglio recintarmi in situazioni di apparente consolazione e non sono adatto a cagionarle. Mi piace vivere e spero di condurre un’esistenza longeva, ricca di spunti metafisici e di meditazioni rivelatrici, però mentirei a me stesso se sperassi di restare qua per sempre.
Quasi mai guardo un film al momento della sua uscita e anche per Interstellar di Christopher Nolan ho atteso oltre sei anni. Dopo averlo visto, e prima di scriverne le mie impressioni, ho provato a leggere qualche recensione per capire altri punti di vista che potessero allargare il mio, tuttavia non ho trovato un commento all’opera che mi abbia agevolato in questo senso.
Per me Interstellar è un capolavoro e l’ho apprezzato sotto molteplici aspetti: fotografia, sceneggiatura, colonna sonora, recitazione. Era da molto tempo che una pellicola non mi coinvolgeva così tanto benché all’inizio io abbia esperito delle incipienti perplessità per qualche buco nella trama, ma esse sono svanite nel prosieguo della storia. Non posso pretendere che in poco più di due ore la coerenza e il dettaglio narrativo siano profondi come in una serie televisiva dai plurimi episodi.
Alcune inquadrature mi hanno fatto pensare all’imprescindibile capolavoro di Kubrick, quel 2001: Odissea nello spazio di cui lo stesso Christopher Nolan ha ammesso l’inevitabile influenza, ma ciò che io ravviso in entrambe le opere, e con la seconda debitrice alla prima solo per un fattore cronologico, è una sorta di tensione spirituale e gnoseologica, come se fosse una radiazione di fondo, per impiegare un termine adatto alla tematica. Forse meno criptico e cervellotico, il finale di Interstellar mi ha colpito più delle ultime scene girate da Kubrick.
Siccome provo una profonda fascinazione per l’universo (ma sono di parte perché… gli appartengo), mi è piaciuto molto l’espediente del wormhole (fenomeno ammesso in via teorica) e lo sfruttamento della relatività einsteiniana per creare l’angosciosa sensazione del tempo perduto, la quale secondo me raggiunge il climax quando il protagonista incontra di nuovo la figlia ormai molto più anziana di lui. Da umile spettatore, privo di competenze per recensire alcunché, non posso che inchinarmi alle sensazioni viscerali di cui l’esposizione a un’opera mi rende il modesto interprete, perciò considero Interstellar una pietra miliare e non provo a divagarci sopra più del dovuto.
Oltre che su strada, continuo a correre sulla sottile linea che separa Lino Banfi da Che Guevara. Il suono della rivoluzione passa dalle orecchiette. Ieri ho corso una piccola gara a Castel Del Piano e l’ho chiusa al quarto posto con un approccio tattico: il podio era fuori dalla mia portata così come il nous anassagoreo lo è dalla mia comprensione. Per la prima volta ho dovuto rimediare il salvacondotto verde, perciò mi sono fatto mettere un tampone nel naso (a mio avviso sempre meglio di altro, altrove) e poi ho interagito con un sito governativo che è stato chiaramente programmato con FrontPage. Ovviamente parteciperò a meno gare del previsto, giacché l’esborso di quindici euro per volta mi sembra un obolo assonante con gabola.
Non sento minata la mia libertà, anche perché la forma più autentica di quest’ultima la considero espressa dall’incoraggiante ottimismo di Emil Cioran: