La lettura de “La fisica dei perplessi” di Jim Al-Khalili mi ha fatto capire che i volumi di semplice divulgazione non riescono più ad avvincermi come solevano fare, ma l’approfondimento della meccanica quantistica nei suoi formalismi richiede delle basi matematiche che al momento non possiedo. Purtroppo i testi accessibili tendono inevitabilmente a ripetersi: la storia della fisica classica, i pionieri del primo Novecento, l’esperimento della doppia fenditura, il concetto di funzione d’onda e quello del suo collasso, il principio di esclusione di Pauli, l’interpretazione di Copenaghen, la cantonata di Einstein sulle implicazioni della meccanica quantistica in concorso con Podolski e Rosen, i concetti di non località e decoerenza, gli stati di sovrapposizione, le quattro forze e, ovviamente, l’astrazione più pop di tutta la fisica, ossia quella del gatto di Schrödinger. Tutte cose che ho letto molteplici volte in saggi piuttosto chiari, piacevoli e simili tra loro, ma di cui comincio ad avvertire le inevitabili semplificazioni. Il testo di Al-Khalili è ottimo, ironico e dettagliato per quanto lo può essere un volume del genere, ma per me non contiene nulla che non abbia già incontrato e soppesato in letture analoghe. Ho comunque preso appunti amanuensi in doppia copia benché il senso di déjà-vu sia stato costante: si tratta di una buona abitudine che non voglio abbandonare. Ho ancora un libro divulgativo di George Musser da leggere, ma quando l’avrò completato eviterò scritti con questo tipo di approccio, perlomeno su tali argomenti.
O mi metterò d’impegno a colmare le mie lacune matematiche, per un primo avvicinamento alla fisica classica da cui poi tentare, a tempo debito, di capire matematicamente almeno qualche concetto di meccanica quantistica, o rivolgerò il mio interesse ad altri campi dello scibile umano. La mia capacità di apprendimento ha chiari limiti, ma siccome cerco una conoscenza fine a se stessa non ho ansie da prestazione. In ogni caso sul punto di morte (e forse anche prima, magari a fronte di una patologia neurodegenerativa) dovrò abbandonare tutte le nozioni incamerate. Fico.
La fisica dei perplessi di Jim Al-Khalili
Pubblicato domenica 27 Giugno 2021 alle 13:03 da FrancescoSe ne avessi la possibilità vivrei tra la Nuova Caledonia e il Giappone, ma finché risiedo in Italia, la quale lotta con il Ruanda nell’indice di percezione della corruzione, cerco di trarne il meglio. È in ragione di questo pragmatismo che ieri sera mi sono recato a Terni per vedere uno dei primi concerti del nuovo trio di Matteo Mancuso, un giovane chitarrista che ha già rivoluzionato l’approccio allo strumento e di cui attualmente non so se esista un parigrado nel resto del mondo. Lo seguo da vari anni, da quando caricava sul suo canale YouTube le cover di pezzi complicatissimi e faceva sembrare tutto facile. Per scattare quest’immagine ho dovuto levare un vecchio biglietto da una cornice economica dell’IKEA, un’incombenza di cui non mi sarei mai fatto carico se non l’avessi ritenuto doveroso.
Oltre ad alcuni suoi inediti (mi è piaciuto molto “Drop D”, un pezzo dal titolo provvisorio), questi tre fenomeni hanno suonato Jeff Beck, Weather Report, Wayne Shorter e soprattutto “Fred” di Allan Holdsworth, del quale Mancuso ha ricordato l’importanza e la recente scomparsa in sordina (io lo vidi nel 2007). Ecco, ieri sera, davanti a quel trio poco più che efebico, mi sono reso conto che per la fusion (e non solo) si sta aprendo un nuovo capito, un salto di qualità. Anni fa pensavo che Guthrie Govan avesse alzato l’asticella al massimo, ora non ne sono più così sicuro.
Al momento non riesco a figurarmi nulla di rilevante nelle immediate vicinanze del presente, ma non cerco novità particolari perché la mia esistenza non è affetta da una sindrome di accumulo. Oltre l’apparente stasi degli eventi le cose mutano in continuazione, ma in modo quasi del tutto impercettibile per il mio intelletto e io non potrei rendermene conto se ogni tanto non ci riflettessi per il gusto di conoscermi un po’ di più.
Forse certuni si oberano di compiti per accelerare il ritmo dei cambiamenti affinché quest’ultimo risulti più evidente alle loro osservazioni, io invece il tempo cerco di rallentarlo, o almeno sono convinto di operare così verso la sua mendace e soggettiva percezione. L’orizzonte della morte prospetta la fine dell’identità e suppongo che qualcuno provi a sfuggire dall’accettazione della propria finitudine tramite l’ausilio di molteplici distrazioni: queste possono essere lavorative, affettive, edonistiche, dissolute, politiche, esoteriche, futili, immaginarie, metafisiche, truffaldine, artefatte, spontanee, passeggere, idilliache…
Non ho mai imparato a ricamare sebbene la certosina abilità di mia nonna mi abbia più volte incuriosito e allettato, perciò non sono in grado di confezionare risposte su misura per altre persone e anzi, se ne fossi in grado, mi spoglierei di quelle che già possiedo. In questi giorni la nudità è una risposta appropriata al clima umido, ma io credo che vada bene anche come saluto agli eoni passati e futuri.
Ieri mattina ho salutato lo scirocco e mi sono accertato che avessi ancora tutte le mie convinzioni malthusiane, poi in buona compagnia mi sono recato alla volta della Tuscia dove ho partecipato a una gara di circa 9600 metri.
Ho chiuso al secondo posto, dietro l’inarrivabile vincitore, in 33’52”, a una media di 3’31” su un percorso piuttosto nervoso.
Nella foto spero che si evinca il mio modesto omaggio a Paul Pogba, precisamente quand’egli, all’inizio della sua conferenza stampa dopo la vittoria della Francia sulla Germania, ha spostato delle bottigliette di birra: lui lo ha fatto perché è musulmano, io perché credo che molti problemi di ordine pubblico siano dovuti al consumo di alcolici. Ovviamente non ho toccato neanche gli insaccati. È tutto haram.
I capelli e il modo di portare la fascia invece sono liberamente ispirati alla magistrale interpretazione di Bolo Yeung in Bloodsport, una pellicola grazie a cui ho imparato la differenza tra il bene e il male.
Invero ho gareggiato anche la scorsa settimana in quel di Orte, una dieci chilometri ostica e con un buon livello che ho chiuso al nono posto in 35’23”, ma dove soprattutto ho avuto modo di rivedere Re Giorgio.
Aggiungo la mia personale testimonianza di quello che è stato un gesto d’altri tempi.
Il quarto classificato avrebbe potuto contendermi il secondo posto e, in tutta onestà, se ci avesse provato secondo me ce l’avrebbe fatta, invece ha preferito compiere un lavoro di squadra per il suo compagno.
Culture dimenticate di Harald Haarmann
Pubblicato venerdì 11 Giugno 2021 alle 15:46 da FrancescoCon l’eccezione dei mirabili scritti di Hopkirk, negli ultimi anni ho prestato poco interesse ai saggi storici poiché in passato (e quando, sennò?), a fronte di letture plurime e costanti (tra cui circa cinquemila pagine di Storica, un mensile di National Geographic), il mio interesse per la materia ha raggiunto un punto di saturazione, tuttavia questo volume di Harald Haarmann mi ha incuriosito per il suo riguardo verso episodi meno gettonati dell’antichità.
È un testo nel quale la descrizione di culture dimenticate implica l’ipotesi che vi siano ancora scoperte da compiere e altre da rivedere, come la suggestione iniziale per cui, sulla base di elementi linguistici peculiari (quelli delle lingue algonchine) in relazione con le espressioni della cultura Clovis e con certe particolarità genetiche, possa esservi stata una migrazione dall’Europa al Nord America già da parte dei cacciatori dell’era glaciale.
Altre scoperte in Asia Minore (i siti di Gobleki Tepe e Catalhoyuk) lasciano intendere che un insediamento urbano non fosse per forza la premessa per un’architettura monumentale e potesse sorgere senza una differenziazione tra edifici pubblici e privati, con una società priva di gerarchie: anche l’analisi della cosiddetta civiltà danubiana depone a favore di quest’ultima ipotesi.
Ho poi incontrato di nuovo la questione etimologica del termine “amazzone”, il quale pare che non indicasse l’assenza di un seno per agevolare l’uso dell’arco da parte di queste guerriere, bensì una congettura più plausibile in merito si annida nel nome di Ameza, una regina delle amazzoni di cui parlavano alcune storie circolanti nel Caucaso tra i circassi.
Infine, tra gli appunti vergati a mano (e, come prassi, riversati poi in un file di testo per godere dei benefici della ripetizione) ho segnato un passaggio inerente gli antichi abitanti dell’isola di Pasqua: rammentavo costoro tanto per le celebri statue ivi erette quanto per il film Rapa Nui (nome dell’isola nella lingua autoctona). A un certo punto pare che la comunità di quest’insediamento nell’Oceano Pacifico sia stata coinvolta da guerre intestine tra fazioni e, spinta dal bisogno di sanare i conflitti, abbia istituito delle competizioni sportive i cui vincitori facevano guadagnare ai rispettivi gruppi la guida della comunità per un anno.
Un’ulteriore e breve menzione è riservata all’importanza degli etruschi per il mondo romano, dal cui nome deriva Tirreno giacché gli storiografi greci si riferivano a loro come tyrrhenoi o tyrsenoi, termini le cui origini invece risultano ancora sconosciute.
Se mi prendessi troppo sul serio mi prenderei in flagranza di reato. Di cosa discetto stasera e, soprattutto, al cospetto di quali ombre? Qualche parola la voglio dedicare alla memoria di un signore che ha lasciato il corpo da pochi giorni. Costui per buona parte della sua ultima incarnazione è stato un musicista, ma poi una malattia neurodegenerativa lo ha costretto ad abbandonare la propria carriera.
Conobbi Lino, questo il suo nome, alcuni anni fa grazie a mia madre, e una sera gli regalai un vinile del gruppo nel quale aveva miliato negli anni settanta. Era un tipo simpatico, estroso e spero che le sue prossime esistenze si svolgano nel migliore dei modi. Un paio di anni fa ci eravamo ripromessi di fare un’altra cena a casa sua, con quella famiglia che gli voleva tanto bene, ma poi la pandemia e questa vita di merda ce lo hanno impedito. Ciao Lino, bon voyage.
A casa non ho una lavapiatti né un’asciugatrice, ma nemmeno una macchina per elaborare i lutti giacché non ne ho bisogno: la morte è una fase intermedia e questa mia intima certezza non ha contorni consolatori né religiosi. Il tempo sottrae ogni cosa dalla rispettiva attualità ed è come una danza di cui taluni non conoscono i passi o non sanno seguire la cadenza. La nostalgia è un difetto di fabbricazione del presente, così come per altri versi lo è la noia, ma quale autorità ho io per affermare certe cose? In realtà le ripeto a me stesso, così sgombro il campo dai dubbi e lo metto a disposizione per le mine antiuomo. C’è chi si toglie la vita e chi vorrebbe averne ancora un po’: buffo questo mondo, vero? Io continuo a cercarmi dentro perché le scoperte più stupefacenti a cui abbia mai assistito sono sempre state endogene. Forse non sono comprensibile, la mia acqua non è potabile, ma anch’io non capisco altri individui né posso abbeverarmi alle loro stesse fonti. Ognuno si disseti come vuole, però che almeno la manna dal cielo sia uguale per tutti, certificata dall’Europa o dall’Iperuranio.
Non mi piacciono i genetliaci, anche perché non mi hanno mai fatto ottenere dei regali di mio gradimento quando ancora ne ricevevo, ma alla fine è il pensiero che conta, o almeno così sosteneva Cartesio. Insomma, sto per compiere il mio trentasettesimo giro intorno alla nana gialla del sistema planetario nel quale risedo: minchia.
È forse giunto il momento di tirare le somme? E se a giugno nevicasse sarebbe il caso di tirare palle di neve o di erigere un pupazzo da decorare con una carota a mo’ di naso? Dopo averci trascorso già tre decadi abbondanti, non consiglio questo mondo agli aspiranti umani: anche se io ormai mi ci trovo bene non mi sento proprio di raccomandarlo, specialmente in bassa stagione. Non ho bisogno di qualcosa in particolare, forse un po’ d’acqua con limone; sto acquisendo un distacco sempre maggiore da me. Sarò pronto e puntuale nell’ora della mia morte, ma nel frattempo armeggio con lo scroto in maniera apotropaica per non anticiparne l’incontro e resto comunque nel dubbio che ciò valga davvero come diffida.
Voglio bene a mia madre, ai gatti con cui divido gli spazi e soprattutto a me stesso. Non ho desideri vivi né morti, la mia ambizione è scarsa, quasi nulla, però mi riconosco una grande riserva di volontà che mi fa risparmiare sul pieno di buone intenzioni. Io non ho nemici e non so se loro cerchino me, ma essi per trovarmi devono andare sempre dritti, a fare in culo con le rispettive genìe, grazie mille.
Amici non ne voglio nel significato stretto del termine, però interloquisco con qualche passante del tempo e talora provo un’autentica simpatia per certe menti. Le infatuazioni non ci sono, è finita la bombola ed è sempre domenica, tuttavia ricordo una signorina che ebbi a vedere sei anni fa sul Ponte Regina Margherita nella città eterna: che Krishna l’abbia in gloria.