Più volte, in passato, ho avvertito un senso d’impotenza dinanzi a fatti e impegni da cui sono stato investito con particolare intensità, come in una tempesta perfetta, ma da qualche anno a questa parte ho sviluppato la capacità di rallentare, correggere e ordinare quelle percezioni erronee. Anche in ragione di questa miglioria la qualità della mia vita è aumentata, ma oltre a un vantaggio organizzativo e umorale ne ho tratto l’ennesima prova di quanto la cosiddetta realtà, almeno fino a un certo livello, dipenda dai costrutti della mente. Invero tutto ciò può sembrare banale e forse lo è, ma credo che i suoi meccanismi e le sue epifanie sfuggano al controllo più di quanto lascino intendere le facili descrizioni a cui si prestano.
I pensieri hanno un peso specifico e sono soggetti a una forza di gravità superiore a quella terrestre, perciò il loro corretto trattamento deve tenere conto di questa differenza e sulla base della mia esperienza credo che un tale approccio non sia affatto intuitivo. Avverto i benefìci dei molteplici progressi che la mia introspezione mi ha fatto guadagnare a fronte di sforzi equi e sinceri. Non m’illudo che il processo d’individuazione possa farsi entelechia, nell’accezione più profonda del termine, ma tale impedimento immagino che caratterizzi la natura intrinseca del fenomeno e dunque prescinda dall’impegno del soggetto.
Forse la libertà si misura nel grado di controllo della mente e può darsi che questo sia uno dei motivi per cui alcuni individui risultano più liberi di altri benché all’apparenza versino in condizioni precarie. Pare davvero che ogni individuo abbia in sé il proprio carceriere e il suo salvatore, oltre a tutta una serie di personaggi intermedi, ma l’importante gerarchia alla quale mi riferisco non ha nulla di pirandelliano. Per mia fortuna non devo insegnare né spiegare alcunché a nessuno, difatti sono il maestro di me stesso e mi considero un allievo diligente: spero che la realtà, ossia la costante commissione esterna, continui a promuovermi.
Le manie di protagonismo e l’avidità di potere brillano di luce propria: almeno quest’ultima non è a carico dei contribuenti. Credo che ogni nazione abbia la classe politica che merita e quindi ogni popolo viene sì rappresentato, ma in primo luogo per le proprie storture e poi, in un secondo tempo e solo formalmente, per le confuse istanze di cui si fa richiedente grazie al giochino democratico delle “libere” elezioni.
La mia non è una banale invettiva, giacché se tale fosse il mio intento risulterei più scontato di quanto già io non sia, e quindi mi limito a una constatazione dei fatti, invero anch’essa piuttosto ovvia. Per me le istituzioni sono ricettacoli di acque reflue, prive di pragmatismo e incapaci di perseguire quest’ultimo, anche nei rari casi in cui esse ci provino nella persona di qualche integerrimo funzionario, ma d’altro canto non può essere altrimenti perché una democrazia corrotta e immatura necessita di un tale trofismo per mantenere in vita gli aggettivi anzidetti. Un sistema differente può essere ideale per me, ma esiziale per chi invece trovi vantaggi e una propria identità in una cotale porcilaia, dunque non ammanto queste mie considerazioni d’una patina moralistica e riduco tutto a un approccio analitico assai semplice o semplicistico.
Se anche volessi vedere delle persone capaci e meritevoli sugli scranni più alti di questa baracca repubblicana, come potrei fare? Di certo non con il voto, ma soltanto con un atto di forza per istituire un nuovo potere che a taluni, alla fine, risulterebbe altrettanto oppressivo, inetto e reo delle peggiori sperequazioni. Non se ne esce, ma il problema si trova a monte: esserci entrati con l’incidente della nascita.
Lo stato (con la esse maiuscola o minuscola in base al proprio sentire) si configura come il male minore di un male maggiore ma spesso necessario: quest’ultimo altro non è che è la vita in società. Non m’interessa granché l’argomento del giorno quanto invece quello dell’eternità, ma dal primo traggo spunto per eiaculare un pensiero infecondo sull’attualità, altrettanto sterile.
Rischio di risultare ripetitivo come i migliaia di passi che quasi ogni giorno alterno sull’asfalto, ma oltre ai chilometri corro anche l’alea di un approccio monotematico perché, in ultima analisi, non ho lettori a cui rendere conto e io non mi annoio mai con me stesso. In Oriente per taluni l’unica cosa che non cambia mai è il cambiamento stesso: condivido e per adesso non mi sento incline a dedicare sguardi attenti ai tanti e apparenti fatti del pianeta sul quale risiedo.
Ieri pomeriggio ho corso una maratona in allenamento in 2 ore, 56 minuti e 25 secondi, ossia a un passo di 4’11” al chilometro, perciò alla fine non è uscita neanche così veloce, ma l’ho portata a termine in una cornice di trenta giorni in cui ho mantenuto un chilometraggio settimanale superiore ai 130 chilometri e un’andatura media di 4’18” al chilometro.
Non ho assunto acqua né ingerito gel, come faccio quasi sempre in gara; non ho ricevuto alcuna assistenza e sono stato parzialmente accarezzato da un leggero grecale: queste le condizioni, invero nient’affatto avverse.
Si è trattato di uno sforzo abbastanza controllato e ho fatto in modo che il chilometro più veloce fosse l’ultimo. Sotto il profilo mentale ho retto bene, ma quello è l’unico aspetto che non devo allenare ed è una meritata fortuna. Quando sto così tanto sulle gambe penso alle cose più disparate, dal grottesco al metafisico: di solito mi faccio un film a metà tra Nuovo Cinema Paradiso e Il commissario Lo Gatto.
Per almeno tre settimane non farò sessioni superiori ai venti chilometri e mi concentrerò su qualche frazione da spingere in soglia.
Mi sto allenando con una costanza e una determinazione dalle quali non ero mai stato investito prima, inoltre il fisico e la mente stanno rispondendo bene agli sforzi che impongo loro con una certa frequenza. Voglio spingermi fino ai confini delle mie possibilità genetiche e non ho altre ambizioni all’infuori di questa, ma se non dovessi riuscirci non cambierebbe nulla, proprio come se invece portassi a compimento l’opera mia. È tutto autoreferenziale e si esaurisce in sé.
Il gesto atletico e l’accumulo di acido lattico mi fanno sentire tutt’uno con il cosmo, perciò non intendo rinunciarvi fino a quando cause di forza maggiore non me lo imporranno. La corsa mi ha dato molto e io mi ci rapporto come se fosse una dea madre. Se la natura mi avesse donato il talento necessario, mi sarei votato anima e corpo al professionismo, ma io ho soltanto un po’ di predisposizione e non posso ambire a certi tempi.
Ammiro chiunque coltivi con devozione quasi mistica il proprio potenziale perché ai miei occhi è come se assolvesse un dovere che nessuno gli ha imposto né suggerito. È stato speso bene tutto il tempo che ho trascorso sull’asfalto e tra i sentieri della macchia mediterranea: non mi sono perso nulla e ho guadagnato qualcosa che non si può comprare. A taluni tutto questo appare privo di senso, però io non so dove ordinare i pezzi di ricambio né le parti mancanti per aggiustare il loro punto di vista e, soprattutto, non offro questo tipo di assistenza tecnica.
La mia motivazione s’ingenera con un processo d’abiogenesi. Dentro di me c’è tutto quello di cui ho bisogno e ormai ho una certa confidenza con i processi estrattivi dai quali dipende l’accorto sfruttamento delle risorse endogene.
Le prime righe dell’anno le lascio sgorgare da un flusso di coscienza che stasera precede la preparazione del mio unico pasto: la cena. Talora mi capita di rileggere le mie esternazioni più recenti e mi ci riconosco pienamente come in una sorta d’ulteriore conferma, ma di tanto in tanto trovo risibili alcuni dei toni solenni con cui appunto idee e sensazioni passeggere.
Mi piace schernire alcune parti della mia persona, ma lo faccio senza cattiveria a mo’ d’esercizio ginnico e come pratica preventiva, affinché il sottoscritto non rischi di prendersi troppo sul serio. Nei miei testi, o almeno su queste pagine, a volte dovrei ricorrere a una maggiore leggerezza per cagione delle mie stesse riletture, ma in certi casi il mio apparente sussiego nasconde raffinate facezie e, altezzoso, non frequenta la modestia. Mi vengono in mente tante cose da mettere nero su bianco e se fosse possibile alcune di esse le reificherei con lettere cubitali, ma per fortuna la grandezza dei concetti non dipende da quella dei caratteri tipografici.
Provo un moto di nostalgia verso una signorina con cui interloquii quando l’attuale presente si profilava come prossimo futuro, però non sono così motivato da scriverle qualcosa o forse non mi va, ergo riverso qui il mio ricordo di lei, il quale dubito che corrisponda al di lei ricordo.
Cosa mi preparo stasera da mangiare? Oggi ho corso trentatré chilometri a un ritmo di quattro minuti e nove secondi al chilometro, ossia due ore e sedici minuti sulle gambe, perciò due etti di pici senesi (spaghetti toscani piuttosto grandi, simili ai vermicelli) con del pesto alla genovese penso che si confacciano allo sforzo profuso: ha la felicità un altro gusto? Probabile, ma io mi contento d’una certa serenità d’animo.
In questo preciso istante ho una fame tremenda. Non sono un grande cuoco né lo sarò mai, difatti mi limito a rovinare ricette semplici, però mi piace preparare i miei pasti; anzi, ne avverto proprio l’insolito bisogno.