Quest’oggi ho concluso il mio dicembre podistico con una sessione da diciottomila metri che ha portato il computo dei miei chilometri mensili a 550, ma di questi dati parlerò più avanti con un filmato nell’idioma d’Albione. Gli ultimi dodici mesi sono stati uno più simpatico dell’altro e non m’illudo che la loro scia di sangue si arresti di colpo per fare cosa grata al calendario gregoriano. Sono un po’ indifferente agli accadimenti del mondo e cerco di perorare la mia guerra santa affinché lo spazio vitale a mia disposizione non si riduca troppo, ma si tratta anche di un atto conoscitivo in continuo divenire di cui una vocina interiore, ab illo tempore, è stato l’innesco, il casus belli. Nutro l’autostima in maniera autonoma e non cerco all’infuori di me altre fonti di approvvigionamento in quanto risultano troppo impegnative, ma non ne ho manco bisogno perché talora la mia attività ne genera persino un surplus. Non sono in debito con nessuno e nessuno lo è con me, non bramo accordi né nuove linee di produzione e non ho bisogno di prendere scorciatoie per giungere laddove il tempo mi tradurrà inesorabilmente.
Dal nuovo anno non mi attendo nulla di diverso da quanto è già accaduto negli ultimi millenni della sciagurata civiltà umana, ovvero la tendenza alla sopraffazione e un puntuale esercizio dell’ingiustizia a qualsiasi livello dello scibile. La nostalgia per lo stato di natura non passa mai di moda, perciò sarebbe opportuno che scritte al neon di “homo homini lupus” campeggiassero nell’àere durante ogni fashion week.
In media i maschi italiani vivono ottant’anni; io attualmente ne ho trentasei e il tempo che mi resta a disposizione, consti esso di mezz’ora o sessantaquattro primavere, non voglio dedicarlo alla coltivazione di vane speranze: proprio per scongiurare quest’ultimo male, a guisa di vaccino, dedicherò un’esigua parte di detto tempo alla rilettura dello Hobbes.
Qualche settimana fa, nottetempo, ho visto con interesse Senza tetto né legge, un film francese del 1985. Non mi è risultato chiaro l’intento della regista, Agnès Varda, e ne ho ricavato delle impressioni contrastanti. All’inizio v’è il ritrovamento di un corpo, quello della protagonista, Mona Bergeron, e da qui la narrazione si avvale dell’analessi per ripercorrere i momenti che hanno portato la ragazza a morire assiderata in mezzo a un’anonima campagna d’oltralpe.
Prima di scegliere il vagabondaggio, Mona era una segretaria e pare che conducesse una vita borghese. Donna giovane e ancora piacente benché appaia già provata dall’esperienza in strada, costei finisce per interagire con persone piuttosto diverse tra loro per estrazione sociale e culturale, ma a me pare che lei si trovi sempre equidistante da tutti. Buona parte del film si vota alla descrizione di queste relazioni sociali, come se passasse in rassegna un’umanità in antitesi con Mona e tutto ciò avviene sullo sfondo d’un grigiore bucolico.
Questa Bergeron non mi piace perché mi pare fine a se stessa, indolente, apatica, edonista all’uopo e opportunista; priva di una tensione spirituale e manchevole di moti introspettivi: secondo me si tratta di una protagonista anonima come il luogo in cui ella muore e non so se tutto ciò sia voluto o meno. A mio avviso è come se la sceneggiatura di questa pellicola fosse un racconto di Kerouac scritto male e finito peggio, ma forse io non riesco a coglierne il messaggio. Non so se il film vada inteso come una contestazione alla vita ordinaria e alle sue alienanti implicazioni, ma qualora fosse questo lo scopo, non trovo nelle avventure di Mona una ricerca di libertà ed esse mi paiono il semplice prosieguo della suddetta ordinarietà per vie traverse. Può anche darsi che l’opera sia più esistenzialista di quanto io percepisca e quindi prescinde da una profonda caratterizzazione della protagonista proprio perché vuole mettere in luce quel cul de sac che è il percorso d’ogni essere umano. Sospendo il giudizio su questo lungometraggio perché mi rendo conto dei miei limiti interpretativi e non insisto oltre, ma sono contento che adesso risieda nel mio bagaglio di spettatore.
A dicembre ho ritrovato una buona continuità nei miei allenamenti, difatti negli ultimi diciotto giorni non mi sono mai fatto mancare un’uscita e così, dall’inizio del mese, tra frazioni lente e veloci ho incamerato poco più di quattrocento chilometri a un’andatura media di 4’24″/km.
Nella mia zona vige un’atmosfera spettrale e il giovane inverno ne rende le sembianze più desolate di quanto già non siano, tuttavia io mi trovo a mio agio in codesta cornice e ne apprezzo i silenzi d’avello. Coltivo con giocosità e piacere il modesto proposito di migliorare le mie prestazioni atletiche, ma non ne sono ossessionato e così riesco a godermi le meraviglie in cui transito. Non cerco di arricchire la mia esistenza con grandi imprese, bensì faccio il possibile affinché essa mi risulti gradevole e finora, malgrado qualche inciampo, ci sono sempre riuscito. Non mi aspetto niente da nessuno, anzi, metto in conto futuri e inesorabili peggioramenti sotto molteplici aspetti, ma tale ineluttabilità non m’inquieta. I miei desideri sono latenti, non latitanti, quindi ne conosco gli spostamenti e non mi curo del pericolo di fuga né dei loro sbalzi di temperatura: infondo non mi fanno né caldo né freddo. Certe idee in me sono regioni autonome che non possono avanzare pretesa alcuna, ma ne rispetto l’indipendenza e le lascio stare.
La mia abitudine a stare per i fatti miei può dare l’impressione che in me alberghi un altezzoso sprezzo per gli altri, ma in realtà non è così e difatti riesco a rapportarmi bene con quanti si ritrovino a interagire con me. Non cerco la considerazione altrui perché la sua genesi dev’essere spontanea, tuttavia spesso mi mancano delle cose in comune per dare corpo e ispessire il trait d’union: anche per questa ragione prediligo dinamiche e attività in cui non siano d’obbligo il mutuo sostegno né la reciproca partecipazione.
Non sono geloso della mia indipendenza emotiva poiché, a questo stadio della mia esistenza, io credo che sia inviolabile, ma proprio in virtù di questa sua natura adamantina non posso né voglio renderla sussidiaria a frasette di circostanza. Mi considero il portatore sano di un vuoto altrettanto salubre e me ne compiaccio, però apprezzo con sincerità le persone con le quali dialogo più di “frequente” e auguro loro il meglio di cui possano godere su questo pianeta.
Quest’anno il clima natalizio è subordinato a quello dell’Apocalisse, ma io credo che il giorno del giudizio sia stato rimandato per evitare assembramenti. Anche l’eventuale fine del genere umano deve osservare le regole contro il contagio. Non seguo i deliri politici che si dispiegano nella nazione di cui possiedo il mio unico passaporto e mi espongo all’informazione nella misura in cui questa mi risulti d’utilità pratica, perciò non mi avvincono affatto le diatribe tra i piccoli pensatori del piccolo schermo. A me tutte queste restrizioni non pesano per nulla in quanto sono solito trascorrere per i fatti miei questi giorni mitriaci, tuttavia capisco quale colpo al cuore costituisca per taluni l’impossibilità d’imbandire tavole e discorsi allegri.
Non faccio l’albero di Natale perché i gatti a cui mi accompagno già dispongono di molteplici svaghi, però ne ho uno piccolissimo di cartone che ogni dicembre colloco accanto ad alcuni dischi: è un oggettino kitsch la cui provenienza attribuisco a una vecchia rivista. Mi pare che le feste comandate si comandino da sole, un po’ come un desiderio che possieda chi s’illuda di possederlo. Non ho regali da incartare né da aprire, però ho qualche presente per il mio presente: un caso di omofonia nel quale unisco l’utile al dilettevole.
Invece sulla falsariga dell’allitterazione ho la sensazione che tra certi addobbi vi siano degli addebiti, ma io vivo al di sotto delle mie possibilità in senso lato e dunque la questione non mi tange. Mando i miei migliori auguri laddove questi non possono arrivare, perciò con la speranza che mi tornino indietro affinché svelino quanto autoreferenziali siano. Resta poco di tutto alla fine della vita, alla fine della sera, alla fine dei saldi. Brindo alla tua, alla sua, alla mia, con una bottiglietta di Sprite poiché per me alle nozze di Cana andava benissimo l’acqua.
Circa quattro settimane fa sono stato contattato da una casa editrice benché non sia stato io a sollecitarne l’interesse. Un’addetta della società in oggetto, forse mentre cercava istruzioni su come fabbricare ordigni artigianali, s’era imbattuta in un mio libercolo di qualche anno fa, Nuovo nichilismo solidale, e così, illico et immediate, mi aveva chiesto di inviarle il testo completo affinché un presunto comitato di lettura potesse valutarne un’eventuale pubblicazione.
Dopo una rapida ricerca sulla sua casa editrice avevo capito che si trattava di un editore a pagamento, ovvero un’entità verso cui nutro la stessa simpatia che gli azeri riservano agli armeni e viceversa. Per gentilezza e invero anche per curiosità avevo risposto quasi subito alla collaboratrice di cui sopra, avendo cura di specificarle come non fossi affatto interessato a condividere il rischio d’impresa con la sua azienda, ma a seguito di questa mia precisazione lei mi aveva invitato a spedirle comunque il PDF dello scritto poiché il presunto comitato di lettura ne avrebbe valutato una pubblicazione che non avesse richiesto contributi di sorta da parte mia.
Qualche giorno addietro, ormai quasi del tutto dimentico della circostanza testé raccontata, mi è giunta una telefonata da un tizio a cui la collega aveva passato la palla. La conversazione è stata rapida e indolore, ho persino reso edotto il mio interlocutore di come a mio avviso sia meglio spendere del denaro per la promozione di un’opera piuttosto che usarlo per l’acquisto di eroina, ma ho ribadito come non sia interessato alla faccenda poiché detesto tanto le illusioni quanto le droghe. Non pago di questa mia risposta, costui ha sottoposto alla mia attenzione una “proposta di contratto” tramite posta elettronica, perciò mi sono sentito in dovere di rispondergli a mia volta con un’epistola digitale che riporto di seguito.
Per me si tratta di una proposta irricevibile poiché sono contrario a qualunque forma di editoria a pagamento, ma questa mia posizione era già emersa nel corso della nostra telefonata.
Se il mio scritto fosse davvero valido e presentasse realmente una potenziale commerciabilità allora non sussisterebbe l’esigenza di condividere il rischio d’impresa.
Il vostro modus operandi è adottato anche da altri, tuttavia non è la prassi e posso affermarlo senza tema di smentita poiché conosco realtà editoriali, piccole e grandi, che non chiedono contributi agli autori. Comprenderei e accetterei finanche la proposta di un editore che mi chiedesse di rinunciare per sempre a qualunque diritto per lo sfruttamento commerciale dell’opera, ma per principio non sborserei mai del denaro di tasca mia a meno che non decidessi di investire su me stesso in piena autonomia.
Dieci anni fa, per il mio secondo libro, rifiutai l’offerta di un piccolo editore che mi chiese soltanto un modesto contributo per i bollini SIAE, ergo su questo punto sono inamovibile. Inoltre non ho mai avuto velleità da scrittore proprio perché conosco lo stato dell’arte (in senso lato e letterale) e difatti consiglio a chiunque di preferire la pratica dell’atletica leggera all’esercizio della cultura, giacché quest’ultima ormai s’è fatta asettico numero e solo in rari casi assurge allo stesso grado del bilancio aziendale.
Vi ringrazio comunque per l’interesse, vi porgo cordiali saluti e vi auguro un buon Sol Invictus.
Finalmente ho risolto un problemino fisico che per un paio di mesi mi ha impedito di allenarmi bene e così, da alcuni giorni, ho ripreso a sostenere delle buone andature nelle mie uscite podistiche. Per superare quel fastidio non mi sono rivolto a un medico né mi sono prestato a una ridda di esami: ci ho convissuto fino a quando non si è estinto e immagino che lo stesso modus operandi si possa applicare alla vita tout court, laddove essa si configuri o venga intesa come un infortunio cosmico.
Vivo in un’epoca del cazzo che straripa di giovani idioti e vetusti incapaci, ma io sto per i fatti miei, coltivo le mie passioni in un giardino d’amor proprio e frequento perlopiù gatti castrati dall’indole atarassica. Sto cercando di scrivere il mio sesto libro, ma al momento non ho molte idee e forse è venuta meno o è diminuita parecchio quell’esigenza interiore che mi ha spinto a redigerne cinque. Nel mio caso la mancanza d’ispirazione deriva da una certa tranquillità d’animo, perciò non la reputo un problema e invero non me ne frega nulla. Mi sento in pace con me stesso e non vedo cosa possa chiedere di più dalle circostanze. Non rimbombo nella testa di nessuno e nessuno tuona nella mia, in una reciprocità che non può risultare altrettanto equa nelle asimmetriche forme del desiderio o nei rapporti di coppia.
Di tanto in tanto scorgo in me un tenue invaghimento, ma lo lascio sempre dove lo trovo, così ho più tempo per correre. Non ho mai appurato se sulle etichette delle persone campeggino avvertimenti quali “maneggiare con cura”, “materiale fragile” o, nel caso dei piromani, “liquido infiammabile”, ma io non mi occupo di resi e non ho niente da vendere, perciò la mia è destinata a rimanere una semplice curiosità. Non posso mercanteggiare le croci altrui perché non ne ho di mie da barattare, ma potrei ordinarne una online da personalizzare all’uopo. Ci penserò. In fede, mio Francesco.
Sono oberato di noie passeggere a cui devo dedicare più tempo di quanto voglia distrarre dalla mia disponibilità, però la mia mente non risente di questa seccante fase e io me ne rallegro. È come se la mia realtà interiore godesse di una crescente indipendenza rispetto a una certa quota dei fenomeni esogeni, tuttavia non m’illudo che l’intima enclave di cui sono reggente sia davvero un’opera compiuta. Non mi reputo un cercatore d’oro né di guai, ma talora i secondi s’imbattono in me e cercano di trattenermi nella loro pochezza. Di norma non mi attardo per le vie maestre della mediocrità e anche per questa ragione delego alla mia assenza molte ambasciate sociali, ma di tanto in tanto i gangli del potere e la stupidità umana mi obbligano a presenziare dinanzi alle spoglie offese del buonsenso.
La legge degli esseri umani non mi trasmette alcuna fiducia e provo una forte diffidenza nei confronti dei suoi molteplici interpreti. Nelle divise di ogni ordine e grado io vedo sempre dei potenziali nemici, perciò non riesco a illudermi che il loro operato possa tutelarmi. Forse non credo neanche alla verità, qualunque essa sia, ma di certo quest’ultima non ha bisogno della mia approvazione affinché la sua essenza possa godere d’una certa autonomia. Le diatribe, le controversie, le guerre tribali, le liti di condominio, le battaglie per diritti più o meno civili, le rivoluzioni violente e i bombardamenti a tappetto sono degli svaghi diffusi a cui io, tuttavia, ne preferisco altri, quindi rinuncio volentieri al ruolo di comparsa in quei giochi senza frontiere e non temo d’offendere qualcuno con il mio fermo rifiuto. Non voglio essere al di sopra bensì al di là delle parti, compresa la mia, e chissà che un giorno non riesca in cotale opera; nel frattempo costeggio la mediocrità di cui sono ospite e non mi faccio scrupoli a pisciarci contro.