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La percezione divisoria del vuoto

Mi aggiro nottetempo tra le miriadi di possibilità che ognuno annovera nelle ore di cui dispone, ma non ne trovo neanche una che sia alla mia reale portata, come i beni di lusso per chi conferisca loro un ulteriore valore oltre a quello di mercato. Talora una prolungata indecisione costituisce il più grande dei privilegi, ma sovente non si dimostra tale finché le circostanze non ne rivelino la sua preziosa irripetibilità sulla fredda linea del tempo.
Non so a quale inseguimento votarmi, verso cosa proiettare la mia coscienza, ma soprattutto non ho idea se sia opportuno che qualcosa del genere avvenga. Davanti a me si staglia un vuoto sconfinato del quale non riesco ad ammirare i contorni invisibili, ma di cui percepisco l’avvolgente presenza: perché mi pongo il problema di provare a riempirlo quando invece, per buona creanza, non dovrei gravarlo nemmeno con lo sguardo? Eppure sono combattuto tra la volontà dell’affermazione e il gusto superiore della rinuncia: questo vuoto c’è e i sensi ordinari me ne restituiscono una minima parte, non contiene nulla e soltanto un mio capriccio vuole oberarlo con qualcosa di cui neanche dispongo; non mi chiede niente e io invece cerco di estorcergli dei vaticini.
Forse il dualismo autoreferenziale nel quale verso costituisce uno scoglio imprescindibile che ostacola quanto dev’essere ostacolato affinché sia sì di difficile ottenimento, ma gravido di conseguenze e di un senso apparente qualora venga raggiunto, come se la sua stessa essenza dipendesse dal tragitto sull’impervia via in cui alberga. Tali considerazioni sono di una banalità sconcertante, ma non le discrimino per questa ragione e riservo loro l’angusto spazio che meritano, inoltre sono adeguate alla miseria con cui mi dibatto nel conflitto anzidetto tra un’istanza creatrice e una contemplativa, laddove invero la seconda può svolgere su un altro livello anche le funzioni della prima ma non viceversa.

Francesco

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