Su quale canale verrà trasmessa la fine del mondo? Servirà un abbonamento per vedere in chiaro il più oscuro dei tempi? Il mio fatalismo splende di luce propria. Non so cosa abbia in serbo il futuro per la mia specie né se davvero abbia ancora senso il concetto di avvenire.
Le spinte migratorie, il debito pubblico, l’emergenza sanitaria: i conti non potrebbero tornare neanche se conoscessero la strada di casa, la misura è colma e l’inizio della fine pare che stia prendendo l’abbrivo. La lenta caduta delle certezze si propaga con la tipica inerzia che anticipa e segue i grandi disastri, inesorabile e maestosa nella sua austera epifania.
Di quali proporzioni è la differenza tra la realtà e l’idea in cui ognuno la sigilla con il proprio riduzionismo? Quanto è imprecisa l’opera di ricalco tra i fatti e la loro descrizione mentale da parte di chi vesta i carnali panni del caduco spettatore? Assisto con svogliata attenzione ai concitati moti di chiunque si trovi a fronteggiare l’orizzonte della sua finitezza senza che ne abbia mai tastato prima l’accidentato terreno. Si muore così come si vive: a suo tempo il professor Heidegger spiegò l’essenza di quel “si”, pronome (im)personale e illusorio.
La paura può essere un campanello d’allarme o quello sul citofono dell’idiozia, ma quest’ultima non è mai in casa perché alberga ovunque e vanta una certa ubiquità. Non so dire cosa gli altri debbano fare perché non ho uno strumento col quale misurare la giustezza delle mie affermazioni, ma se mi capitasse tra le mani un dispositivo del genere lo userei prima di tutto per il mio bene e solo in un secondo tempo ne estenderei l’uso verso terzi. Mi chiedo come mai si possa nascere senza una prescrizione medica o metafisica: quali referenze ha la transeunte esperienza terrestre per risultare così appetibile? La fine e le sue sorelle mi ricordano le Parche: il destino è sempre una questione di famiglia.
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