A volte mi sembra di essere giunto a un punto morto e non c’entra nulla l’imminenza del due novembre, però quest’impressione non desta mai al mio interno uno sconforto profondo e anzi, talora porta in dote un’edificante rassegnazione. Comunque non spetta a me riconoscere l’arrivo in un vicolo cieco e, tutt’al più, posso sfruttare la possibilità di ipotizzarlo per sbaglio in ragione dell’erroneità a cui il libero arbitrio è aduso.
Non intravedo certezze su cui poggiare o da cui spiccare un grande salto: tutt’attorno ogni cosa e ogni concetto mi paiono precari e pericolanti: se dipendesse da me transennerei res extensa e res cogitans.
Ogni epoca ha punti di contatto con le sue omologhe pregresse, come se fossero sorelle, perciò l’apparenza di unicità è del tutto illusoria e fa leva sul carattere attuale di quella che, di volta in volta, risulti la prescelta del presente, passeggera concubina di un harem cronologico. Non c’è nulla di cui debba temere e la realtà si produce nella mia testa in una quantizzazione che i limiti della mia specie m’impediscono di cogliere, ma a parte quest’ovvietà non ho grandi spunti con cui giustificare al momento la piattezza dei miei orizzonti. L’esistenza procede con il suo passo e non le si può addossare la colpa di chi non la segua a tempo o ne rifiuti proprio il ritmo: io non ho mai avuto passione né predisposizione per il ballo.
Prima o poi qualcosa accadrà a differenti livelli, compreso quello in cui mi trovo, ma non posso davvero prevedere la natura degli eventi futuri ed è anche per questo motivo (oltre al fatto di non berlo) che non mi presto alla lettura dei fondi di caffè.
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