Un po’ di tempo fa mi sono imbarcato nella lunga e impegnativa lettura de “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, ma alla fine sono stato ripagato dalle forte suggestione che porta con sé l’impianto speculativo di Julian Jaynes. Non posso rendere giustizia a oltre cinquecento pagine piuttosto dense e quindi mi limito a farne una modestissima cernita, del tutto arbitraria e lacunosa, ma a mio esclusivo uso e consumo.
La premessa risiede nella considerazione della coscienza quale tardo prodotto del genere umano in virtù di una sua assenza negli aspetti culturali della specie fino a qualche millennio fa. Gli argomenti di questo primo sostegno mi convincono perché si stagliano sull’adozione della scrittura, momento nel quale s’indebolisce la tradizione orale e si avvia il progressivo esautoramento delle voci allucinatorie, ossia quell’autorità primeva che Jaynes attribuisce alla cosiddetta mente bicamerale e di cui, nella seconda metà del libro, suggerisce di ricercare le vestigia nella moderna schizofrenia che egli reputa un fenomeno residuale di quella forma mentis. A tale proposito reputo interessanti le correlazioni neurologiche a cui Jaynes si risolve per non limitare l’ipotesi a un quadro prettamente storico o etologico, perciò ne consegue un certo interesse per l’emisfero destro e per come quest’ultimo, nella mente bicamerale e nei casi di schizofrenia, sopravanzi nelle esternazioni quello sinistro che di norma è deputato al linguaggio.
I tentativi di definire la coscienza sono altrettanto ragguardevoli e nella prime pagine sono messi in rilievo con quella che a me ricorda la tecnica per via di levare di michelangiolesca memoria: la coscienza non è il deposito di concetti e di norma neanche se ne serve, non è necessaria all’apprendimento e talora può persino ostacolarlo, non serve alla ragione ancorché talvolta le due siano sovrapposte o considerate un tutt’uno; in ragione di tali punti è lecito supporre che sia esistita una razza di uomini la cui esistenza prescindeva dalla coscienza.
Secondo Jaynes ai tempi della mente bicamerale non esistevano incertezze e di conseguenza non sussistevano i presupposti per fenomeni come la preghiera; le teocrazie di cui fungeva da stampo erano soggette a una periodicità intrinseca di ascesa, caduta e ritorno, essa inoltre verteva sull’udito più che sulla vista (con la sollecitazione delle relative aree corticali), quindi l’avvento della scrittura confinò la parola del dio in una forma controllabile e le sottrasse il potere ubiquitario che imponeva un’obbedienza immediata dovuta alle allucinazioni uditive, le cosiddette “voci” tipiche anche della schizofrenia. In ultima analisi Jaynes interpreta (in termini generali, come egli precisa) la nascita della coscienza come il passaggio da una mente uditiva a una mente visiva.
Nonostante si tratti d’un testo un po’ datato (risale alla metà degli anni settanta) mi sorprende come prenda in considerazione una questione che da alcuni anni a questa parte avvince un certo pubblico (con Sitchin in primis e Biglino in seconda battuta), ossia quella degli elohim (termine ebraico sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro) a cui la teoria della mente bicamerale accorda il ruolo di visioni e voci, quindi risulta de tutto aliena (l’ironia è voluta) dalle ipotesi dei cosiddetti antichi astronauti o da qualsivoglia connotazione extraterrestre; corollario di tutto ciò è la maniera in cui Jaynes si approccia all’Antico Testamento nel quale egli vede essenzialmente un documento della perdita della mente bicamerale.
Un altro punto d’interesse per me è costituito dai connotati che la coscienza assume in tale contesto: essa spazializza il tempo trasformando la diacronia in sincronia e induce a vedere gli accadimenti in una giustapposizione spaziale. Ha qualcosa di potenzialmente copernicano quanto scaturisce da una tale prospettiva perché in essa, ad esempio, il senso della giustizia dipende dal senso del tempo e dalla successione spaziale così com’è posta in essere dalla coscienza.
Gli spunti sono innumerevoli e innumerevoli sono i passaggi da appuntare, difatti sulla mia copia grava il peso di molti adesivi e abbondano le parentesi quadre di cui la mia matita è prodiga, ma altrettanto copiosi sono i possibili sviluppi e le conseguenze da trarre.
Mi chiedo se Jaynes ammetta la possibilità di un’essenza metafisica nell’essere umano o se la sua concezione della coscienza costituisca per lui una pietra tombale su qualunque idea di questo genere, nondimeno parti delle sue tesi mi sembrano plausibili, in particolare quella sullo sviluppo del senso del sacro, altre invece le recepisco tanto avvincenti quanto azzardate.
Non già la coscienza in quanto tale, ma il suo concetto è un qualcosa di cui i possessori possono essere molto gelosi poiché definisce la loro individualità, di conseguenza mi domando se la lettura di un testo simile non possa essere inficiata da un cotale pregiudizio il quale, com’è possibile e probabile, rischia di aggiungersi alle eventuali inattendibilità e fallacie di certe supposizioni ivi presenti.
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
Pubblicato sabato 28 Settembre 2019 alle 10:36 da FrancescoPoco mi entusiasma di questo giovane autunno, ma ne apprezzo il fresco serale che non mi fa rimpiangere l’afa estiva. Ultimamente non me la passo bene su quasi tutti i fronti della mia esistenza e le prospettive non sono affatto incoraggianti, ma d’altro canto se lo fossero le chiamerei in un altro modo. Non mi resta che tentare un’accurata interpretazione degli eventi o almeno di quanto questi lasciano intendere. Cerco e aspetto i momenti giusti per un riscatto: la pazienza è un ottimo investimento.
In quest’ultimo periodo la mia ispirazione è una latitante eccellente e la sua fuga si evince chiaramente dalle righe di cui sopra, molto banali ma altrettanto autentiche. Per fortuna ho molteplici passioni che almeno in parte attutiscono le turbolenze del viaggio. Alcune volte trovo sommo sollievo nella musica giusta, come se un vinile salvifico fosse in grado di riavvolgere certe dinamiche, ma traggo beneficio anche da certe letture.
Invero se volessi degli ostacoli insormontabili sulla mia strada dovrei ordinarne qualcuno e concordarne il ritiro sull’orlo di un precipizio, ma preferisco operare per il mio bene. Non sono superstizioso, tuttavia non posso negare quanto finora sia stato accurato quel nefasto oracolo che ho ricevuto in Giappone (un omikuji al tempio di Asakusa) di cui serbo ancora la sentenza cartacea.
Come al solito la parola finale spetta al tempo, ma credo che vi siano già sufficienti motivi per cui rallegrarsi qualora si abbia il privilegio di coglierne l’insindacabile giudizio. Cerco di prendermi poco sul serio mentre tengo un piede nella fossa e uno in alto come Van Damme, però non cerco di tenere ciascuno di essi in due scarpe perché l’esibizione è già abbastanza complicata.
Le parole scritte e quelle da scrivere
Pubblicato lunedì 23 Settembre 2019 alle 21:26 da FrancescoDevo riprendere a scrivere su queste pagine con una certa costanza poiché il mio dialogo interiore ha bisogno di esprimersi anche in forma scritta. Ogni tanto turbe di dubbi mi attraversano la mente e si votano alla ricerca delle mie certezze più fragili, ma di norma riesco a cacciarle con un sonno riparatore e in tali circostanze di loro non resta che un tenue ricordo, evanescente anch’esso.
Non ho un’autorità a cui fare riferimento, non ho appigli endogeni e non ricevo conferme diverse da quelle che cerco di fabbricarmi con la massima onestà intellettuale. Non odo voci consolatorie né vaghi incoraggiamenti ai quali, comunque, non potrei credere neanche se lo volessi perché la mia lucidità non me lo consentirebbe. Un certo grado di libertà esige requisiti piuttosto stretti, ma riesco ancora a soddisfare cotali parametri e soprattutto continuo a capire, forse viepiù rispetto al passato, quanto ne valga la pena.
Le idee dei fatti talvolta incidono sulla realtà umana più dei fatti stessi, ma io cerco di contenere le prime, invero vorrei detronizzarle, per orientarmi solo in base agli esiti dei secondi. Anche la stanchezza è una pessima consigliera, subdola e mendace, ma ormai ho sviluppato una certa disciplina e non prendo mai decisioni in presenza di una siffatta serpe.
Il Balletto Di Bronzo al Traffic Club di Roma
Pubblicato sabato 14 Settembre 2019 alle 23:21 da FrancescoVenerdì tredici, poco prima dell’imbrunire, ho guidato fino a una mesta periferia della capitale e là ho avuto il privilegio di vedere per la seconda volta un raro concerto de Il Balletto Di Bronzo, questa volta presentatosi con quella che lo stesso Gianni Leone ha definito la migliore formazione di sempre, sua conditio sine qua non per la registrazione di nuovo materiale di cui a tal guisa ho dedotto l’annuncio.
È difficile spiegare la portata di questo gruppo a chi non lo conosca, ma per me è nell’olimpo dei grandi anche se per merito di un solo disco, ormai uscito quasi cinque decadi fa e ancor oggi oggetto di culto tra gli appassionati di tutto il pianeta. Gianni Leone è uno dei miei tastieristi preferiti insieme a Wakeman ed Emerson (anche se per ovvi motivi ricorda più il secondo del primo). Con dieci euro d’ingresso ho potuto assistere a ciò per cui altri, a diverse latitudini, farebbero i salti mortali se venisse loro presentata la possibilità: nemo propheta in patria.
”Ys” è un album imprescindibile per il progressive mondiale ed è incredibile come a quarantasette anni di distanza risulti ancora un’opera d’avanguardia; la mia copia in vinile adesso contiene anche una “leonina”, ossia una di quelle lettere (nel mio caso un’invettiva contro Chiesa e Stato) che Gianni Leone scrive in privato e poi lancia al pubblico: questa volta sono riuscito a prenderne una perché mi sono messo in prima fila con largo anticipo.
Era molto tempo che non mettevo piede al Traffic Club di Roma e l’ho trovato migliorato, perciò conto di vederci qualche altra band. Affievolitasi la passione per le gare, e non per mio dolo, riprendo la militanza sotto i palchi di mezza Italia, almeno laddove ritenga che valga la pena di avventurarmi. Ogni tanto condivido qualche trasferta, ma se dovessi sempre aspettare qualcun altro non farei mai una sega.
Il nuovo governo di gaglioffi è formalmente legittimo e quindi non sussiste una penuria di democrazia, bensì quest’ultima abbonda come il vomito di un ubriaco che sia sul punto di soffocarcisi. Secondo me la repubblica parlamentare è una forma di governo abietta perché accentua la discrepanza di ciò che al contempo appare giusto in teoria e si dimostra sbagliato in pratica.
Non credo che la volontà del popolo (qualunque cosa sia) si possa rappresentare perché ogni sua espressione diventa obsoleta dopo le prime disillusioni, né più né meno di quanto accade a certi uxoricidi per i quali la legge italiana prevede una “pena” effettiva di dieci anni e una laurea in carcere.
Nella cosiddetta “libertà” io tutt’al più còlgo quella d’espressione, pura vanità che ricade in se stessa e di cui queste mie righe forniscono un buon esempio. Le dittature sono educate perché non ammettono i rumori molesti del contraddittorio.
Nella mia idea di paese (mutuo quest’incipit da chi è nato vecchio) vorrei che ci dividessimo in due fazioni e ci scannassimo gli uni contro gli altri per attribuire ragione e torto una volta per tutte, o almeno fino al prossimo giro di cappio: per me la vera democrazia diretta si annida in una guerra civile che non risparmi nessuno. Se mi trovassi sul punto di essere ucciso penso che avrei molta paura e invero preferirei coltivare le mie potenzialità in un periodo di relativa pace, ma ho dalla mia questa suppellettile che si chiama libertà d’espressione e quindi volo con la fantasia (dalla quale decollano i B-52 coi ventri carichi di megatoni).
Sono venuto al mondo per cazzeggiare con il Logos. Le uniche cose da prendere sul serio sono quelle che non lasciano traccia di quanti o di quanto le reputino tali. Cacare figlioli, cacarne tanti per cacarne altri ancora: l’imperativo categorico d’ogni squatter cosmico. Prima di partorire le madri dovrebbero chiedere il permesso ai figli che esse pretendono di avere: ci vuole un ministero per i rapporti con la dimensione prenatale.
Darsi un governo, darsi pace, darsi la morte: io m’immagino cosa risponderebbe uno stoico vero se Gerry Scotti gli prospettasse queste tre opzioni. A seconda dell’identità che mi costruisco posso decidere se farmi misurare secondo la larghezza del reddito, la lunghezza dell’uccello o l’altezza degli ideali. Io me le invento di tutte i colori, ma da buon manicheo torno sempre al bianco e nero, come l’unico film di Kassovitz che conosco.
Queste sono le prime e uniche pagine di un romanzo che presi a scrivere un po’ di tempo fa, ma di cui quasi subito mi pentii. Invero oggi trovo che lo stile sia apprezzabile, ma ne ho scritti quattro di romanzi brevi e non intendo aggiungerne un quinto alla mia opera omnia.
Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina. Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.
Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione di poco conto quando notai alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e la struggente realtà di cui mi ero ritrovato traghettatore: la inconciliabilità di stati così opposti e prossimi l’uno all’altro. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?
Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.
L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.
Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia. Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.
Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi somigliasse di più a una gita fuoriporta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.
La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.