Ho da poco concluso la lettura del testo in oggetto che ha costituito il mio primo approccio con la saggistica di Peter Hopkirk, tuttavia sono già in procinto di iniziare “Il grande gioco” e in futuro conto di procurarmi almeno uno dei suoi tre libri in inglese per i quali non v’è mai stata una traduzione in italiano.
Secondo me Hopkirk ha il merito di ripercorrere le gesta di grandi archeologi con uno stile avvincente, più da romanziere che da saggista puro, e da quanto ho avuto modo di constatare mi sembra che quest’ultima sia un’opinione abbastanza diffusa. In ”Diavoli stranieri sulla Via della Seta” ho colto una retrospettiva su quei pionieri occidentali (più le spedizioni nipponiche del conte Otani) che all’alba del secolo breve riportarono alla luce il passato delle civiltà centroasiatiche, ma nei toni di quelle cronache ho ravvisato un’epicità sui generis, specialmente nel titanismo dei protagonisti al cospetto del Takla Makan.
Ho trovato icastiche e suggestive le descrizioni dei luoghi che non sono state ridotte a una fredda sequela di dettagli, bensì snocciolate di pari passo con i progressi di coloro che vi si stagliarono. Per me un altro ausilio al ritmo dell’esposizione è scaturito da certi aneddoti e dal profilo di figure minori, quale per esempio quella del furbo Islam Akhun, ma anche dalle feroci lotte tra accademici, come nell’imbarazzante caso di Hörnle sul quale Sir Aurel Stein non inferì o nella campagna diffamatoria che certi francesi operarono ai danni dell’arrogante Pelliot.
Al netto di quanto ho appreso non mi sento di condannare chi portò in Europa resti e manoscritti di culture che, se fossero rimaste in situ, con buona probabilità sarebbero caduti sotto la ferocia iconoclastica dei musulmani, tuttavia, sempre alla luce di questa lettura, riconosco come tutto quel patrimonio per lungo tempo non sia stato valorizzato in Occidente.
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