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L’esoterismo islamico di Alberto Ventura

Qualche giorno fa ho terminato “L’esoterismo islamico” di Alberto Ventura, un saggio dal taglio metafisico e speculativo che malgrado le dimensioni ridotte mi ha impegnato più di quanto abbiano fatto in passato testi dalle dimensioni maggiori.
I miei primi contatti con il sufismo sono avvenuti tramite Gurdjieff e Rumi, e ho sempre voluto saperne qualcosa in più poiché, a torto o a ragione, costituisce l’unico aspetto dell’Islam che mi affascini. Nella disamina di Ventura vi sono delle analogie con alcuni concetti dell’induismo, del cristianesimo più antico e del taoismo, quale per esempio la definizione dell’Essenza divina che prescinde da ogni attributo e verso cui si può impiegare soltanto una terminologia negativa, nel senso della teologia apofatica o come nel caso dell’idea di Atman.
In merito al carattere illusorio del mondo mi è parso di scorgere un ulteriore sincretismo per come l’illusione non viene liquidata quale mera fantasia, difatti Ahmad Sirhindi le attribuisce una stabilità e una realtà relativa che sono in accordo col grado di esistenza da cui è stata prodotta.
Dal punto di cui sopra in poi si apre a più riprese una lunga trattazione dei due aspetti della totalità, ossia ciò che è assoluto e quanto invece è limitato, trattazione volta a superare un mendace dualismo e nel corso di cui Ventura rimanda ai testi di Guénon, anch’essi presenti nel catalogo Adelphi e in parte già oggetto di mie letture pregresse. La coda gnoseologica si protrae quasi fino alla conclusione del libro, quando interviene un certo simbolismo che si propone di schematizzare quanto è stato esposto fino a quel punto.
Per me si sono rivelate duecento pagine piuttosto dense, in cui più di tutte ho apprezzato le citazioni di Ibn Arabi. Forse per iniziare sarebbe stato meglio se mi fossi rivolto verso un volume che proponesse una visione più generale del sufismo, ma posso sempre integrare in un secondo tempo tale lettura con un testo meno specifico e ottenere lo stesso risultato in forza di quella regola commutativa per la quale esso non muta qualora cambi l’ordine degli addendi.

Francesco

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