Per diversi anni mi sono ripromesso di leggere l’I Ching, il cosiddetto libro dei mutamenti, anche in ragione dell’interesse che a suo tempo gli riservò Carl Gustav Jung, e alla fine dell’ultimo inverno ho tenuto fede a quel proposito. Il mio approccio non è stato quello di chi fosse alla ricerca di uno strumento divinatorio o d’un modo per dare libero corso alle proprie suggestioni verso conoscenze antiche e sapienziali, bensì mi ci sono affacciato per cogliere l’invito a una diversa introspezione e per soffermarmi sul tema della sincronicità senza annacquarlo con fiumi d’incauto razionalismo. Trovo affascinanti anche gli aspetti archetipici che stanno alla base dei sessantaquattro esagrammi e delle loro spiegazioni, ma considero piuttosto sottile la linea che divide il valore psicologico dell’opera da una sua interpretazione caricaturale e mendace.
Ne ho portato a termine l’attenta lettura oltre un mese fa, tuttavia non ho ancora scorto il momento giusto per provarne una prima applicazione e non intendo farlo per mero gioco in quanto, se così agissi, ne tradirei lo spirito nonché la conditio sine qua non. A tempo debito darò conto a me stesso su queste pagine della mia esperienza con l’I Ching, ma per adesso continuo a dilatare l’attesa in virtù del concetto greco di kairòs.
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