La congiura della parole conduce sovente all’infanticidio di ogni significato, ma non di rado cotale figliolanza nasce già inferma e dunque la sua morte prematura rassomiglia a un atto di clemenza. Le conversazioni si ramificano in una subdola reciprocità e nella loro ostentazione sembrano le vene pronunciate d’un anziano malato. Oralità e scrittura si dimostrano nemiche di loro stesse, condannate dai particolari delle singole lingue così come qualunque tossicomane lo è dalle sue predilezioni narcotiche o etiliche.
I bassifondi del logos sono lastricati di libri e pervasi dai fonemi, ultime satrapie della perduta Babele dove i tombini esalano miasmi e sofismi verso nembi altrettanto malsani. Ed è sulle strade sconnesse e senza uscita del verbo che transitano e si scontrano fatalmente i vettori dell’interlocuzione. Passibili di pene esistenziali ed espropriazioni emotive, nonché primi attuatori di misure così draconiane nei loro stessi confronti, plurimi individui vagano raminghi e si cercano tra di loro per conseguire una mutua risonanza che regolarizzi le rispettive posizioni sulle terre emerse. Non timbri di ceralacca o inchiostro, né marche da bollo o firme digitali, bensì l’adesione al consesso civile richiede la vidimazione di orecchie da mercante e di sguardi inebetiti da abitudini ciarliere. L’esistenza di un senso si espone spesso a un comprensibile negazionismo, ma i grandi ricami sul corso degli eventi possono concedere il legittimo dubbio che vi sia davvero qualcuno o qualcosa a indossare il tempo.
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