Il cielo è terso e il sole, con le sue piacevoli radiazioni, avvolge in un abbraccio termico la mia cittadina. Si avvicendano senza posa giornate serene e placide, un po’ insolite per questo periodo dell’anno, ma io spero che la loro frequenza diventi sempre più assidua. Forse in momenti come questi può risultare più semplice fare i conti con la morte. Vorrei che l’abbandono del mio corpo avvenisse in una mite giornata di una primavera ancora lontana, serenamente, come il naturale epilogo di un’esistenza evoluta.
Sono consapevole della mia transitorietà e di tanto in tanto ne scrivo come ulteriore esercizio di ripasso, per stringerne viepiù la presa di coscienza. Mi trovo in una equidistanza pressoché perfetta da ogni reciprocità e per me sono del tutto alieni i concetti di malinconia e noia. Il famoso ordine delle cose non svela apertamente se stesso, ma le sue sembianze non sono poi così ascose come taluni ritengono: il riconoscimento dei suoi tratti preminenti richiede soltanto il coraggio di uno sguardo che sappia fissarlo per come esso si presenta. Sono aduso a un certo dinamismo e sottopongo il mio corpo a determinati sforzi per seguire una salutare prassi, ma rivendico il movimento anche nel suo arresto e difatti, talora, quest’ultimo avviene su espressa richiesta degli eventi. Sento in me un’energia che enfatizza i meccanismi fisiologici e tanto mi basta per affacciarmi a ogni giorno con gratitudine ma senza pavide riverenze.
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