Le flebili avvisaglie dell’inverno ribadiscono la ciclicità delle stagioni e in quest’ultima colgo il carattere altrettanto periodico d’ogni dinamica umana. Anche se avessi tempo da buttare di certo non lo sparpaglierei alla rinfusa e opterei invece per la raccolta differenziata nella grande discarica della dimenticanza.
In attesa di morire, e senza che in me alberghi alcuna fretta di ottemperare a quest’obbligo biologico, mi chiedo dove e come la vita si dispieghi al di là degli ambienti e dei modi terrestri, ma capisco quanto i miei interrogativi risultino ormai logori e banali, consunti dal tempo.
Mi piace immaginare che sia più facile e proficuo il dialogo tra civiltà aliene rispetto a quello in seno a una singola specie. Faccio molta attenzione alle parole, ma accetto l’incomunicabilità di cui esse sono ambasciatrici e quindi non confido in una loro applicazione pragmatica.
Una lingua madre ha molti figli di secondo letto e l’incontro tra idiomi differenti non si risolve mai in una disputa tra prime donne. Secondo me la ripetitiva meccanicità e la pochezza di certe esternazioni della mia specie sarebbero più autentiche se fossero veicolate dai richiami di altri animali, ma il riduzionismo di cui sono figlie mi pare che comprovi la natura ibrida di chi non sa regredire del tutto né vuole perseguire un’evoluzione individuale. A me interessano poco gli sviluppi altrui e d’altro canto posso occuparmi soltanto dei miei, ma cerco d’inquadrarne i tratti distintivi ogniqualvolta io rischi di orbitare troppo vicino a corpi estranei. Evito collisioni catastrofiche ed metto radiosegnali che si perdono nel vuoto.