In questa notte di fine maggio mi fa compagnia la voce di David Byron su un grande disco degli Uriah Heep, ma io nelle tenebre non mi rivolgo né a demoni né a maghi.
Il silenzio cittadino è pressoché assoluto e in un tale stato di cose la coscienza dispone di un’ottima acustica per eseguire le proprie orchestrazioni. Non so dove mi stia portando il tempo e non vedo individui affidabili a cui chiedere indicazioni. Davanti a me scorgo soltanto orizzonti distratti che non si presentano come tali e alle mie spalle posso osservare dei lontani fantasmi che gesticolano in una maniera del tutto incomprensibile. Non capisco a cosa serva la mia lingua madre e mi chiedo se la Torre di Babele sia davvero servita a creare confusione tra i popoli o se invece sia stato un favore celeste per accontentare qualche palazzinaro. Non mi aspetto nulla dal futuro perché in passato ho fatto lo stesso e il presente che ne è seguito mi ha confermato la bontà del mio atteggiamento.
In ossequio alla verità devo ammettere che ogni tanto qualche speranza mi è caduta su terreni del tutto aridi, ma ovviamente non ne è nato nulla e così mi sono risparmiato la fatica di raccogliere ciò che avevo seminato, ossia una casuale vacuità di aneliti umani.
Mi piace l’insindacabilità di cui godono i verdetti del tempo: j’adore! Talora prendo posizione su certe faccende perché non voglio illudermi che l’indifferenza basti per fruire di una piena esenzione da tutto quello che mi succede attorno: preferisco un punto di vista a un miraggio.
Sono occupato a vivere quando non penso a ciò che vivere significhi e oggi come in passato mi va di trarre il meglio dal mio tempo, ma a volte ci sono dei momenti in cui desisto da questo proposito perché anche il disfattismo deve avere una sua piccola valvola di sfogo. Non condivido niente con nessuno, però sono atteso da tanti bei momenti che affondano le proprie radici in altrettante perle del passato, ancora rilucenti e candide nella stessa solipsistica essenza di sempre, da sempre.