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Psicologia e alchimia di Carl Gustav Jung

Sono giunto alla fine di Psicologia e alchimia di Carl Gustav Jung, un libro di cui per lungo tempo avevo rimandato lo studio e la lettura. La concezione dell’alchimia come semplice antesignana della chimica mi dà l’idea della stessa confusione che sussiste tra l’aurum vulgi, ovvero l’oro del volgo, e ciò a cui invece punta davvero il processo di trasmutazione, ossia l’aurum nostrum.
Jung ha cura di sottolineare l’aspetto psicologico del processo alchemico ed equipara la prima materia (in quanto base dell’Opus) a un contenuto psichico autonomo il quale, in ragione del suo carattere soggettivo, sfugge a ogni definizione, inoltre egli precisa come la proiezione di questo contenuto sia inconscia. Le considerazioni di cui sopra fanno il paio con i due aspetti fondamentali dell’alchimia, ovvero la pratica del laboratorio e il processo psicologico che è in parte conscio, in parte inconscio. Per Jung la nigredo (cioè la prima fase dell’opera alchemica) ha una corrispondenza psicologica con l’incontro della cosiddetta Ombra; la sostanza trasformante ha la duplice qualità di materia vile (resa da allegorie diaboliche) e allo stesso tempo presenta un carattere prezioso, persino divino: è questa che conduce dall’infimo, al supremo, dall’animale infantile e arcaico all’homo maximus mistico. Oltre a simili idee e alle loro più precise implicazioni v’è un’ipotesi che ha catturato il mio interesse: mi riferisco a quella secondo la quale così come vi sono stati giacenti al di sotto della coscienza, ve ne possono essere altri al di sopra di essa.
Ho trovato stimolanti i parallelismi tra il Lapis e Cristo benché il concetto del primo affondi le sue radici ben più in profondità rispetto alla figura del secondo, e ho appreso con ancor maggiore interesse la differenza tra lo scopo dell’alchimia e il fine del cristianesimo: la prima non ha come priorità la redenzione dell’uomo, caratteristica che è invece preminente nel secondo, ma vuole redimere la divinità che è perduta e dormiente nella materia. Sempre in merito al rapporto tra l’alchimia e la dottrina cristiana mi ha fatto sorridere una piccola verità di Jung sulla nascita dei Rosacroce, ovvero che la ragion d’essere delle società segrete è quella di mantenere in vita la forma di un segreto a cui sia venuta meno la sua sostanza: ho incontrato quest’affermazione nella parte conclusiva del libro, precisamente quando Jung scrive del declino dell’alchimia e ne colloca l’inizio al diciassettesimo secolo.
Mi sono poi imbattuto in utili considerazioni a corredo della tematica principale; il concetto di Sé, ribadito ancora una volta come comprensivo di coscienza e inconscio di cui è, appunto, il centro così come l’Io è il centro della coscienza, tuttavia anche l’assunto per il quale una conoscenza che sia soltanto intellettuale non basti a liberare il soggetto dall’infanzia e di come per tale scopo sia necessario un approccio in cui il ricordare sia anche un rivivere. Ancora in merito al Sé mi ha colpito una critica che viene rivolta a chi lo inquadri entro i limiti della psiche individuale: per Jung questa è una riduzione arbitraria e non scientifica.
A conclusione di questi miei sparuti appunti ricorro a una citazione di Maria Prophetissa che mi ha sedotto a prima vista: “L’’Uno diventa Due, i Due diventano Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l’Unità”.

Francesco

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