In questo periodo, all’imbrunire, ogni tanto alzo lo sguardo verso occidente e là, sul proscenio celeste, vedo Venere che non ho mai avuto modo di osservare ad altezza d’uomo.
Ci sono delle sere in cui mi sento un vagabondo del Dharma, come in un romanzo di Kerouac, e mi aggiro in dedali di fugaci riflessioni presso i quali trovo un po’ di tutto. Non mi piace lasciare le cose incompiute a meno che l’incompiutezza non faccia parte del loro completamento, perciò non tengo in sospeso la spada di Damocle né i discorsi che svolgo tra me e me.
Mi chiedo se io riesca davvero a inviare dei segnali con il solo ausilio della mente, in maniera del tutto inconsapevole, ma non confido che ci sia vita al di fuori della mia soggettività.
Vivo in un’epoca che richiede il celere innalzamento di muri invalicabili, ciò vogliono gli archetipi ciclici che parlano per mezzo dell’inconscio collettivo, quindi io non posso certo pretendere di stabilire dei ponti radio o anche soltanto una passerella sul fiume di Eràclito: chi può viaggia su certe lunghezze d’onda, chi non può si gode le proprie interferenze.
Sul mio orizzonte vuoto riesco ancora a scoprire dei momenti di forte commozione che in realtà non hanno nulla d’emotivo, ma queste occasionali scariche di vita si originano allorquando io sia più (con)centrato su me stesso: esse non dipendono da me e le reputo prodromiche dello stato anzidetto. Ecco perché fatico quando mi apro a qualcuno: in casi del genere scombino un difficile assetto il cui ripristino, a seguito di un eventuale fallimento (pressoché matematico), richiede un certo investimento di tempo e di energie; forse l’assetto in questione si evolve proprio in virtù del suo continuo perire e ricostituirsi. Se un giorno dovessi trovare la quadratura del cerchio tra me e un triangolo festeggerò con una Sprite in lattina, ma per adesso non mi pongo neanche il problema in quanto è esso che non mi si para davanti.
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