Qualcosa d’inaspettato mi pervade in questa notte d’autunno e anche per me si chiude da solo un capitolo che non è mai stato aperto. Non mi riapproprio di nulla, ma accolgo dal suo letargo il mio spirito più affine: è un gioco di scatole cinesi, una sovrapposizione di intenti spontanei.
Tutto è com’era e non posso neanche scrivere di un’avvenuta trasformazione né di un ripetersi degli eventi poiché invero finanche tutte le virgole sono rimaste al loro posto: inveterata fedeltà allo status quo. Mi chiedo chi sono e non posso che domandarlo a me stesso, ma qualche volta vorrei che il mio volto fosse quello di Giano per interloquire con qualcuno di mia conoscenza.
Esisto benché nessuno se ne avveda e per fortuna il mio tempo non cerca il proprio significato in ragioni eteronome. M’è dato di guardare verso ciò che crolla e ciò che emerge: perciò di volta in volta assisto ai disastri compiuti e a quelli solo annunciati. È nella piena lontananza che vedo sotto la più vera delle luci ciò che comunque non è mai in ombra. Avanzo nel tempo perché esso stesso mi avanza. Mi chiedo se esista davvero un luogo natio che non sia quello di cui le carte d’identità e i passaporti dànno notizia; un luogo primigenio al quale tributare la più incerta delle nostalgie. La fine non mi spaventa e l’inizio è già passato, perciò non posso che augurarmi un buon proseguimento. S’alimenta di piccole e grandi ambizioni il fuoco dell’avvenire (il sol invece è tramontato da quel dì), ma la stasi stessa è un’ambizione di un certo ordine: esiste una fuga dalla ragion d’essere? Qualcuno scriveva e parlava di slancio vitale, laggiù tra il diciannovesimo secolo e quello che venne dopo, ma non si può ragionare con un moto irrazionale e allora non ci resta che piangere. Non amo il plurale maiestatis e vi ricorro solo per fare ironia di terz’ordine a cui solo io, unico presente, sorrido con gusto. Rispondo all’appello e sul resto taccio.
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