A pagina centoventicinque de “La morte del sole” di Manlio Sgalambro è scritto quanto segue: “Noi non siamo figli del piacere dei nostri genitori, ma della loro ignoranza del piacere”.
In questo breve passaggio ho trovato una sintesi perfetta di cui ero in cerca da tempo e che io stesso non sono mai riuscito a coniare con altrettanta efficacia.
Nietzsche scrisse “La nascita della tragedia”, io invece potrei intitolare il mio prossimo saggio “La tragedia della nascita” perché è così che considero qualsiasi aborto mancato.
Quando mi complimento per un nuovo nato lo faccio solo come gesto pro forma, giusto per non aprire delle parentesi antipatiche in contesti inadeguati, ma spesso riesco a scongiurare anche questa finzione.
Non scado in facili stereotipi ed è per tale ragione che da qualche parte (ancora in itinere) io affermo: “La vita vale la pena di essere vissuta, ma non data”.
Non ho mai trovato un testo di Sgalambro nel quale vi fossero derive consolatorie ed è proprio un altro passaggio de “La morte del sole” che mantiene la barra dritta: “Se si dà il vero non si dà il bene, perché il bene riempie il vuoto della verità; non appena però il vero appare, il bene non ne sopporta la vista. Questo dileguarsi del bene davanti al vero è il pessimismo”.
Il testo di Emanuele Severino invece ha un taglio più accademico, eminentemente filosofico ed è anche lettura difficile per le continue astrazioni che ne richiede la sua piena comprensione; non è possibile scriverne neanche due righe poiché a mio avviso si presta poco a qualsiasi genere di accenno: o tutto o niente. Per chi ama Heidegger (magari prendendo la rincorsa da Parmenide) con Severino si trova a casa (o quasi).
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