Pubblicato venerdì 29 Luglio 2016 alle 02:24 da
Francesco
La scorsa settimana ho ripreso in mano un libricino di cui avevo già lambito i contenuti in molteplici occasioni: mi riferisco a quella summa di insegnamenti ermetici che risponde al nome de Il kybalion. La lettura di questo scritto mi ha ricordato una sibilla di cui ho perso le tracce nell'etere un anno fa: malgrado tutto di costei serbo un ricordo platonico assai piacevole.
Come al solito il mio approccio è strettamente personale e dunque nelle righe seguenti riporto solo i passaggi che hanno catturato la mia attenzione, quei frammenti che per una ragione più o meno conscia mi hanno spinto a vedervi più della giustapposizione di parole delle mia lingua madre; io credo che l'arbitrarietà degli appunti sia essa stessa un indizio per qualsiasi indagine introspettiva. Le analisi critiche, l'ermeneutica, l'esegesi e gli assoluti non mi competono.
Allorché si ode il rumore dei passi del maestro, si aprono le
orecchie di coloro che sono pronti a riceverne l'insegnamento.
Mi ha colpito questo assunto perché è fornito a corredo della tesi secondo la quale Il kybalion attiri l'attenzione di coloro che siano pronti a riceverne gli insegnamenti; considero tutto questo piuttosto suggestivo, però la parte scettica di me si domanda se non si tratti di un espediente atto a lusingare il lettore, così da infondere in quest'ultimo la vaga idea di una sua unicità che non sia soltanto quella propria (paradossalmente) di… ogni individuo.
Sul tema della trasmutazione mentale non riesco ad avanzare dubbio alcuno e quindi neanche sulla definizione dell'universo come un tutto mentale: in questo concetto v'è in nuce quanto poi sarà "scoperto" (o meglio, quanto sarà allungato di quel brodo primordiale) da chi verrà dopo. Qualora il Tutto (con la ti volutamente maiuscola) sia mentale, allora «non può essere materia, dato che nulla può apparire nell'effetto che non sia nella causa». Non trovo appigli per negare una simile concezione e non riesco proprio a immaginare quali bordate le si possano infliggere.
Il celebre principio della corrispondenza, quello che campeggia sulla tavola di smeraldo, è forse l'insegnamento che più d'ogni altro ho provato ad assimilare nel corso degli anni: «com'è al di sopra, così è al di sotto; com'è al di sotto, così è al di sopra». Esso dà la chiave per comprendere i paradossi che sono immanenti alla natura, ma al di là delle parvenze di comprensione trovo che sia davvero arduo per me applicare un tale monito con la dovuta perizia e una piena regolarità, di conseguenza mi contento di quei brevi istanti in cui ogni cosa mi sembra al suo posto, come in fulminee estasi dietro cui non v'è merito alcuno. A tale proposito, forse un po' forzatamente, mi vengono in mente delle parole che scrisse Manlio Sgalambro: «Io, contemporaneo della fine del mondo non vedo il bagliore, né il buio che segue, né lo schianto, né il piagnisteo ma la verità da miliardi di anni farsi lampo».
Nel principio della polarità ho trovato la sintesi perfetta delle apparenze dualistiche che si celano e si palesano in ogni dove, esemplificate come una differenza di grado: tale principio è antesignano di quello taoista, quantomeno nella più grezza delle sue enunciazioni.
In tutti gli inviti (compreso quello delfico) a conoscere sé stessi, in tutti gli sproni che gli eventi, altri individui, le voci interiori o chissà quali altre entità forniscono ai più, ebbene in tutto questo io vedo l'inseguimento della capacità di cambiare la propria polarità: è tale prassi che considero quale vera padronanza di sé in quanto supera quest'ultimo e lo pone in accordo con ciò di cui fa parte. Il ricorso alla legge della neutralizzazione consente di elevarsi e lasciare sotto di sé certe oscillazioni benché queste continuino a operare: qui è chiamato in causa (e a questo punto direi anche come effetto…) il principio del ritmo.
C'è un avvertimento ne Il kybalion a cui attribuisco un'importanza pari agli insegnamenti ivi presenti e concerne il possesso delle verità, il quale «a meno che non abbia corrispondenza nel campo dell'azione è come l'accumulare metalli preziosi: cosa vana e sciocca». Più volte io stesso ho lamentato quanto un eccessivo nozionismo (e non necessariamente la verità) possa risultare nocivo qualora diventi autoreferenziale e non trovi sbocchi concreti, perciò mi chiedo se un tale monito non abbia il suo posticino negli archetipi di un inconscio sì collettivo, ma tra le fila di più "recente formazione", ovvero quelle che fanno capo alla civilizzazione poiché non vedo come si potrebbe adattare a quegli ominidi che "non distinguevano l'aurora dal tramonto".
È dunque scontato come ai miei occhi sia sublime la legge dell'uso la quale intima di utilizzare la conoscenza, altrimenti «chi la vìola, soffre, poiché si mette in conflitto con le forze naturali».
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Pubblicato lunedì 25 Luglio 2016 alle 23:19 da
Francesco
La mia è un'estate un po' sottotono perché nei suoi ardenti giorni ho visto naufragare le flebili speranze che sono maturate in altre stagioni, però non lascio che il corso degli eventi influenzi il mio stato d'animo e quindi faccio appello a tutta la mia volontà. Assisto meditabondo all'ignavia dei governi europei, ascolto spari e detonazioni per interposti organi di senso grazie ai ponti radio, ai collegamenti satellitari, alle fibre ottiche e alle dissociazioni mentali dei terroristi, però di fronte a cotanto stragismo io non mi sento meno legittimato a compiere dei voli radenti su me stesso. Se un'autorità suprema m'investisse di poteri assoluti cercherei di risolvere le questioni di quest'epoca con misure draconiane, ma in realtà non posso che ambire al controllo sulla mia esistenza, comunque parziale e al netto di ciò che è chiamato impropriamente "casualità".
Sono ancora estraneo a qualsiasi affinità elettiva, però riempio il mio tempo libero con interessi che lo rendono davvero tale, ovvero libero da tutto quanto può arrestarne lo scorrimento nella sfera microcosmica. Dopo un certo numero di anni ho ancora delle buone abitudini che io spero durino quanto la mia vita. Non conosco migliore prassi di quella che giustifichi se stessa dinanzi all'amor proprio, ma non escludo affatto che ce ne siano di migliori e non mi sorprenderei se un domani mi ci trovassi a fare i conti. Per ora continuo a leggere quanto è stato scritto da uomini che sono morti da un pezzo, però non ritengo un valore aggiunto la distanza progressiva che intercorre tra il decesso dei suddetti e i sudditi del presente.
Di tanto in tanto vorrei vederci lontano come Hubble: questo desiderio sorge e tramonta in me come il più breve dei giorni allorché un'idea d'infinito mi trafigge il cuore. Non mi resta altro che scherzare con tutto, specialmente con ciò che taluni reputano sacro, ma allo stesso tempo mi è concesso fare anche l'esatto opposto per produrre silenzi d'incommensurabile valore, quelli che non furono mai scritti e mai lo saranno. Le due facce della stessa medaglia o le facce di Giano; del dualismo non so granché, tanto meno il suo grado di aderenza alla realtà. Divago per svago e me ne compiaccio con me medesimo: non v'è altra sfera d'influenza che sia alla mia portata.
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Pubblicato martedì 19 Luglio 2016 alle 14:56 da
Francesco
Pensavo che i colpi di stato fossero dei fenomeni pressoché scomparsi, ormai appannaggio di qualche stato subsahariano, perciò il tentativo di golpe in Turchia mi ha sorpreso più dell'ennesimo attentato di matrice islamica. Da quanto ho letto mi è parso di capire che il putsch sia fallito perché i golpisti non sono riusciti ad avere l'appoggio della popolazione che avrebbe dovuto moltiplicare la potenza del loro esiguo numero, inoltre gli alti papaveri sono stati lasciati liberi di fuggire e lo stesso Erdogan ha avuto tempo per diramare un messaggio alla nazione che è risultato fondamentale affinché le strade turche si riempissero di gente su cui gli insorti, alla fine, non hanno avuto il coraggio di aprire il fuoco.
Non mi lancio in improbabili di disquisizioni geopolitiche, ma constato un certo compiacimento nel mio essere coevo di eventi che, in qualche misura, entreranno nella storia dell'umanità (da consumare preferibilmente entro…) e ravviso in tutto questo una sorta di schadenfreude per la quale nutro comunque degli scrupoli. Immagino che il meccanismo dietro a quanto ho sovraesposto sia simile a quello che innesca il voyeurismo dinanzi a incidenti di vario genere, stradali in particolare.
Non ricordo dove né quando, ma tempo addietro lessi qualcosa che mi fece intendere come talvolta il piacere di assistere a delle sciagure non provenga dalla suddetta schadenfreude, bensì dall'estraneità ai fatti e si manifesti dunque come una specie di sollievo. Da quest'ultima prospettiva mi vengono in mente le parole di un epicureo, Lucrezio, che nel suo De rerum natura scrive:
Bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano.
Non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina
ma la distanza da una simile sorte.
Considero questa citazione talmente esplicita da vedere in ogni altro tentativo di aggiungervi qualcosa solo il pericolo d'inficiarne la portata, perciò mi astengo da ogni ulteriore commento.
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Pubblicato venerdì 15 Luglio 2016 alle 10:54 da
Francesco
Freud riteneva la pulsione di morte un'ipotesi irrefutabile e il proprio pessimismo un risultato, a differenza dell'ottimismo dei suoi avversari che invece egli considerava una premessa.
Il principio di piacere è volto alla gratificazione immediata e al mantenimento di un basso livello dell'eccitamento, ma talora gli subentra il principio di realtà che dilaziona la gratificazione e si fa carico di una temporanea tolleranza al dispiacere per questioni di adattamento alle circostanze.
La pulsione di morte pare che sia la tendenza al ritorno allo stato inorganico, ovvero a quella fase primeva dell'evoluzione in cui la vita si instillò in una sostanza inanimata; una concezione del genere mette in discussione quella visione della vita che verte sulla ricerca dell'evoluzione, come nel perseguimento del superuomo di nietzschiana memoria, tuttavia è lo stesso Freud a sottolineare subito quanto possa risultare dolorosa la rinuncia a una credenza così consolidata. Fatico ad accettare in toto un tale postulato, ma escludo che la mia ritrosia sia d'ordine emotivo e la ritengo invece propria di un sano atteggiamento dubitativo. Invero dalla mia prospettiva atea non sarebbe per me gravoso accogliere l'idea di riassumere la vita nello scopo di morire, ma forse non ci riuscirei lo stesso in quanto mi sembrerebbe troppo bella perché fosse vera.
Alle luce di cotanta foschia il richiamo alla filosofia di Schopenhauer è un moto spontaneo a cui anche Freud fa cenno in un passo del suo scritto, precisamente quand'egli riporta le parole del filosofo tedesco sulla morte quale "vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita".
Mi domando se Thanatos, la pulsione di morte, sia davvero latente in ognuno di noi, ovvero in ciò che Jung chiama inconscio collettivo; mi chiedo inoltre se i capitoli più neri della storia della civiltà, non ultimo quello odierno del fanatismo islamico, siano da attribuire alla manifestazione di questo principio che, in determinate circostanze e presso certi gruppi, non trova gli ostacoli del principio opposto, cioè di Eros, la pulsione di vita. Ecco dunque che dietro ogni massacro può essere scorto il tentativo di riportare tutta l'umanità a ciò che fu in principio poiché "gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi".
Sono un uomo, mi ritengo empatico in un giusto grado e mi limito al mero esercizio speculativo di considerare la violenza senza fine come una mera coazione a ripetere, ma non faccio mia una tale veduta poiché non ne avverto l'autenticità; d'altro canto penso che sia importante lo sforzo di sospendere talvolta ogni tipo di emotività, blanda o parossistica che sia, affinché la lucidità possa operare nelle migliori condizioni possibili come un chirurgo in un ambiente asettico.
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Pubblicato venerdì 1 Luglio 2016 alle 23:59 da
Francesco
A quattro anni dalla sua stesura ho deciso di rendere disponibile il mio ultimo libro in formato cartaceo e digitale. Non penso che nello spazio profondo o sul globo terracqueo qualcuno sia davvero interessato a ciò che scrivo, però ai miei occhi la mancanza di un qualsiasi seguito non toglie nulla al valore proprio della cosa: si tratta di aseità.
Mi preme ricordare come Nuovo nichilismo solidale fu scelto da una platea di cinquemila testi per concorrere in un talent letterario di dubbio gusto che andò in ondà su Rai Tre nell’anno di grazia duemilatredici; io stesso mi recai a Torino per prendere parte alla trasmissione e nonostante il consenso unanime dei tre giudici fui eliminato. Contro di me vinse una concorrente che manco poteva partecipare al concorso poiché aveva già all’attivo una pubblicazione e tale circostanza era espressamente vietata dal regolamento; regolamento al quale, come sovente capita nelle terre italiche, fu data scarsa importanza, tanto da sembrare quasi facoltativo.
Comunque poco male: pochi giorni dopo le registrazioni del programma partecipai alla cento chilometri delle Alpi e arrivai sesto, stabilendo il record personale di nove ore spaccate che non ho ancora battuto. Ah già, il mio cazzo di libro. Se qualcuno volesse azzardarsi a prenderne una copia a spese degli alberi può trovarlo qui; invece chi preferisse il formato digitale può trovare l’e-book su Amazon.
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