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Appunti sfusi del Libro rosso di Carl Gustav Jung

Ancorché con estrema concisione e senza l'ausilio degli incisi necessari, intendo trasporre su queste pagine una parte dei miei appunti su uno dei testi più famosi e controversi di Jung, ovvero il Libro rosso a cui ho dedicato molteplici attenzioni sin dalla scorsa primavera.
Quanto mi accingo ad annotare non ha pretese di completezza, dunque lo vergo come meglio credo a mio esclusivo uso e consumo; mi riservo inoltre la possibilità di ampliare questo piccolo sunto di annotazioni che ho tratto dalla lettura del testo in questione e da quella della Guida al Libro Rosso di Bernardo Nante.

Il Libro rosso è disseminato di miti, ma è esso stesso un mito che esorta chi lo legge al recupero di una vita simbolica: quest'ultima consiste nell'unione degli opposti che è celebrata dalle nozze mistiche che ognuno deve narrare con l'unicità della propria esistenza. Jung precisa che il testo non dev'essere considerato alla stregua né di una dottrina né di un insegnamento, bensì solo un invito che è rivolto a chiunque intenda cercare dentro di sé la via della propria rivelazione.

Apprezzo molto quest'ultimo monito di Jung e dei suoi esegeti in quanto non riduce l'opera a un corpus di dettami per indoli pedisseque, ma pone il lettore al cospetto della vox media più bella e crudele, ovvero "libertà"; e mutatis mutandis, in tutto ciò sento odor di pelagianesimo.

Il primo passo che viene mosso nel Libro rosso è verso l'assurdo e si compie con l'assassinio di Sigfrido che invece rappresenta il senso. L'Io è il protagonista e deve rapportarsi con le figure più disparate, tra le quali il Diavolo e un anacoreta: il primo rappresenta la materia, il mondo terreno, il secondo invece l'ascesi e la spiritualità.

Viaggiando verso oriente l'Io s'imbatte in un gigante babilonese di nome Izdubar (che è l'errata traslitterazione di Gilgamesh) il quale procede in direzione opposta. Quest'incontro è quello tra l'uomo scientifico e l'uomo mitiologico con la dicotomia che è loro propria. Jung spiega al gigante la teoria eliocentrica ed egli s'ammala poiché gli vengono meno le convinzioni magiche, quindi Jung tenta di riparare al danno che ha causato e propone a Izdubar di diventare una fantasia in modo tale che lui possa portarlo in Occidente, racchiuderlo in un uovo e covarlo. Quando i passi anzidetti vengono compiuti Izdubar rinasce ma l'Io ne resta orfano.
A questo punto è sottolineata l'incapacità di vivere in pieno il mistero dell'unione degli opposti a causa della tensione tra lo scetticismo scientista e la devozione infantile.
L'Io riceve il dono della magia che richiede il sacrificio della consolazione e si reca da un mago affinché lo liberi dal destino: la magia consiste nell'imparare ciò che non può essere imparato e nel comprendere l'incomprensibile in quanto essa permette di sopportare le contraddizioni.
Il mago Filemone non comunica all'Io il segreto della magia per mezzo della parola, bensì egli si avvale del suo modo di vivere e ne fa un esempio. Compaiono poi i Cabiri, delle divinità ctonie che si mettono al servizio dell'Io per diventarne oggetto di sacrificio.

L'Io riconosce le esigenze dei morti e così può lasciare le aspirazioni personali, inoltre è in grado di non desiderare più che la sua volontà s'imponga agli altri o che di questi egli voglia la felicità.
Appaiono due figure, Salomè ed Elia: la prima rappresenta l'eros e il secondo il Logos.
Le nozze mistiche tra sopra e sotto generano un'anima spiritualizzata e il protagonista resta da solo con il suo Io: costui deve recuperare il passato che non ha ancora accolto poiché la pietra di paragone è l'essere soli con sé stessi. Questa è la via. L'Io non deve farsi carico dei morti perché deve restare fedele alla solitudine, ma non lo capisce e sprofonda nella tristezza, inoltre v'è un confronto con l'Ombra personale in cui ammette la propria inferiorità e accetta di farsi domare. Su questo orizzonte si staglia un concetto importante, ovvero che occorre comprendere sé stessi per superare la pretesa di essere compresi dagli altri.
Jung non si disfa dell'anima benché questa si presenti come una sgualdrina ipocrita poiché egli sa che comunque serba il tesoro più prezioso. Per procedere verso il Sé è necessario che vi sia un riconoscimento dei vizi e delle virtù.

Nel pleroma le coppie di opposti in realtà non esistono poiché si annullano, perciò nella misura in cui un individuo è attratto da un polo finisce per cadere in quello opposto: rimedio a ciò è l'essenza e non il pensiero. Filemone insegna il sapere che pone un freno al pensiero.
È Abraxas che abbraccia entrambi i poli, ovvero un dio da sapere e non da comprendere, cioè il signore di questo mondo. Filemone da parte sua non può insegnare ai morti il dio che è uno in quanto essi lo hanno ripudiato e così hanno dato potere alle cose, ovvero a molti dèi.
Essere in comunione dà calore mentre essere da soli dà luce: l'uomo deve differenziarsi dalla sessualità e dalla spiritualità che non possiede poiché ne è posseduto. Affinché l'integrazione si verifichi l'enantiodromia deve interrompersi. Secondo Filemone gli uomini non possono imparare nulla fino a quando non vivono la loro vita senza imitare nessuno: ciascuno deve realizzare la sua opera salvifica. Gli dèi sono insaziabli perché ricevono troppo e devono imparare la penuria dagli uomini, ma le atrocità dei mortali aumentano quando queste precedono la rinascita di un dio paradossale. Il dio unico è morto e la pluralità delle cose uniche è il dio uno.
Elia finisce per indebolirsi poiché passa a Jung una parte troppo grande del suo potere; egli e Salomè sono modelli archetipici per l'unione degli elementi maschili e femminili; riconoscere il valore della seconda rende possibile l'annullamento dell'identificazione del sapere con la mera erudizione. A un certo punto appare Cristo con le sembianze di un'ombra azzurra e Filemone lo porta a capire come la sua natura sia anche quella del serpente: egli ne conviene.

Francesco

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