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I miei riti di passaggio: parte tre

Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015 alle 02:55 da Francesco

La tempesta è ormai prossima, pronta alla carica come una falange armata, e nell’aria non c’è spazio che per la sua ira, ma prima di scontrarmici voglio abbassare le palpebre per un istante.  Raccoltomi in un momento di buio mi sento finalmente pronto per la schermaglia, ma quando riapro gli occhi davanti a me si estende un cielo terso e tutto ciò che mi era ad un passo adesso è svanito. Mi domando come sia potuto accadere un cambiamento così repentino, cosa lo abbia scatenato e per quale ragione; giungo a dubitare persino della mente e così mi chiedo se io non sia rimasto vittima di un’allucinazione: una voce lontana mi suggerisce che tutto può cambiare in un battito di ciglia. Provo di nuovo a chiudere gli occhi per un momento e ne riapro uno per volta, ma tutt’attorno ritrovo la stessa calma della tempesta mancata. Contemplo il sereno per quanto basta a pienarmi il cuore e avanzo verso le dune che si succedono come in una dinastia. Scorgo in lontananza una torre d’avorio che alta e imponente svetta nel deserto: nient’altro mi reclama. Giungo all’eburnea soglia e una signora anziana mi accoglie. «Vai pure, ma quando te ne andrai non chiudere la porta, altri verranno come altri sono giĂ  venuti e se dei primi il ricordo deve ancora fare un ingresso trionfale nei posteri, quello dei secondi ha giĂ  lasciato il proprio scranno» mi dice costei, vestita di bianco dagli anni e annerita dal sole di millenni. 
Entro dove prima a malapena giungeva il mio occhio e salgo lungo una scala a chiocciola che mi porta su un altro piano. Sopra un leggio vi è un grande tomo dall’aspetto antico che là giace abbandonato da chissà quando. Faccio per sfogliare una pagina ingiallita, ma questa si strappa come se avesse desiderato staccarsi da tutte le altre e allora la gravo col peso del mio sguardo. Su quell’apostata cartacea ci sono scritte verità sbiadite, ma una di queste ritrova il suo stabile splendore appena la leggo tra me e me. Una volta incoronate di senso, le parole che ho davanti illustrano in epigrammi come ogni cosa sia destinata a ricadere nel suo opposto.
Odo rumori lontani e mi affaccio ad un’apertura per lanciare un’occhiata verso l’orizzonte, dove di solito il tramonto si consuma in rossori cangianti. Uomini vestiti di bianco ruotano su sé stessi e una folla attenta ne osserva i precisi movimenti. Lascio cadere la pagina di carta e scendo le scale di calce, ma quando arrivo all’esterno non c’è più traccia dei dervisci. Ritorno dentro, resto al primo piano e mi chiudo in me stesso. Forse un giorno un incontro sarà possibile, ma a dorso di elefante, non di cammello: ed elefantiaca sarà anche la memoria.

Gli elefanti di Salvador Dalì, 1948

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