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Giu

La piuma di un gabbiano

Pubblicato martedì 23 Giugno 2015 alle 07:30 da Francesco

Ieri ho avuto un’idea che probabilmente non apporterà nulla di concreto alla mia esistenza, ma di sicuro ne arricchirà i tratti amorfi e le parti intangibili.
Sulla strada verso casa ho notato un gabbiano che era intento a beccare un uccello più piccolo e ho pensato che taluni non riuscirebbero ugualmente a stare in pace anche se avessero le ali. Qualche ora dopo lo scontro dei volatili mi sono ritrovato a qualche metro dalla costa, in acque un po’ mosse ma comunque cristalline, rigeneranti e tanto amate dal sottoscritto che là si sente come forse si sentì quand’ebbe primo asilo nel liquido amniotico. Ad un tratto un gabbiano si è lanciato a pelo d’acqua e ha perso una piuma di cui mi sono appropriato a poche bracciate di distanza: ho deciso di coglierla appena si è adagiata sulle increspature salmastri e quasi subito ho scambiato l’idea di una coincidenza con un’intuizione simbolica.
Talvolta, per incensarne la meraviglia o per sottolinearne il carattere illusorio, la vita è descritta come se fosse un sogno e allora mi chiedo perché non applicare alla prima le interpretazioni che di solito si riservano al secondo. La penna di quel gabbiano ora è asciutta e si trova davanti a me come se fosse un presagio, o almeno io la connoto in questo modo e chissà che delle altre coincidenze non mi convincano ad escluderle la natura stessa della coincidenza: bei paradossi.
Nella smorfia napoletana uno dei significato della piuma indica un contrasto con le donne e ciò è buffo (a tratti persino inquietante) poiché tale interpretazione ha per me un significato preciso. È passato un po’ di tempo da quando credevo che tutto avvenisse per caso e non escludo che alla fine sia davvero così, ma vivo meglio senza certezze di questo genere.

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12
Giu

Lo stato di coscienza ordinario

Pubblicato venerdì 12 Giugno 2015 alle 09:43 da Francesco

In passato ho rimandato più volte un serio approccio a qualunque forma di meditazione perché non sapevo orientarmici e non avevo le idee chiare sulle mie necessità: sporadici tentativi, a tratti un po’ naif, non mi hanno mai portato oltre un breve sollievo. Per me un avvicinamento razionale alla pratica è un primo e imprescindibile passo da compiere poiché mi ritengo un occidentale a tutti gli effetti e non so procedere altrimenti, tuttavia so bene che degli eventuali sviluppi non possono essere del medesimo tenore e devono perciò snodarsi su un altro piano. Ho quasi terminato la lettura di Stati di coscienza di Charles T. Tart e in una parte del libro, il cui argomento sono gli stati di coscienza alterata, vi è una digressione sulla meditazione che io ho trovato piuttosto istruttiva. Anzitutto ho gradito l’uso esplicativo e pragmatico di espressioni che altrove ho sempre percepito (forse per una mia mancanza) piuttosto astruse; mi riferisco in particolare all’impiego del termine “energia”: ne riporto un esempio affinché le mie parole non finiscano per essere avvolte dalla stessa fumosità verso cui ho appena dichiarato insofferenza. Lo stato di coscienza ordinario è considerato naturale poiché si presta alle esperienze familiari di tutti i giorni, ma per mantenere il proprio regime ha bisogno di energie che lo stabilizzino e queste sono prodotte dalle fonti più disparate, quali i movimenti del corpo, le attività quotidiane e ovviamente il pensiero, col suo continuo rumore di fondo, perciò se le energie anzidette non fossero impiegate allora lo stato di coscienza ordinario potrebbe lasciare il posto ad altri stati di coscienza: secondo me è significativo che a questo proposito Tart citi Don Juan (lo sciamano di Carlos Castaneda) e ricordi com’egli invitasse il suo allievo a rallentare il pensiero.
In realtà non c’è nulla di nuovo sotto il sole poiché in certi ambiti e alle latitudini più disparate la sospensione dell’attività mentale risulta sempre una conditio sine qua non, ma a mio avviso Tart ha il pregio di spiegarla in termini tutt’altro che iniziatici. È su tale attività discorsiva che si staglia una metafora induista che in altri contesti forse non sarei riuscito ad apprezzare in egual misura; mi riferisco all’immagine dello stato di coscienza ordinario come quella di una scimmia ubriaca e dispettosa che vada di albero in albero dietro la spinta dei suoi desideri animaleschi.
Io non ho mai fatto uso di droghe, neanche di quelle di Stato (cioè tabacco e alcolici), però ho sempre compiuto una netta differenza tra l’uso di sostanze psicotrope a scopo ricreativo (che in realtà è analgesico, ma questo punto mi riservo di rimarcarlo nel saggio che sto scrivendo) e un uso atto ad espandere la coscienza (tale è per esempio il ricorso al peyote con l’ausilio di uno sciamano); mi pare che Tart nel suo libro proponga una visione abbastanza simile benché la sua abbia un taglio (eh già, la parola è azzeccata…) più scientifico e si astenga dai giudizi di valore.
Tutti questi concetti non sono mere astrazioni sebbene io non escluda che nascano e poi si sviluppino con l’intento di esserlo, perciò me ne servo come se fossero dei pezzi di ferraglia da impiegare per scopi diversi da quelli per cui sono stati creati; non c’è bisogno che lo scriva e dunque lo scrivo perché non sono i soli bisogni a muovermi: da ciò cerco un riverbero concreto.

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Giu

Trentunesimo genetliaco

Pubblicato sabato 6 Giugno 2015 alle 19:45 da Francesco

Ho corso migliaia di chilometri a piedi, ho letto decine di migliaia di pagine e ho vissuto centinaia di migliaia d'ore. Sono nato esattamente quarant'anni dopo lo sbarco di Normandia e, per quanto il mio su questo pianeta sia stato più modesto, oggi mi sento come se anch'io avanzassi attraverso le Ardenne: Berlino cadrà.
La mia forma psicofisica è ottima e in quest'anno, ultimo alfiere dei primi tre lustri del secondo millennio, la sua tenuta è stata sottoposta alle dovute prove. Mi sento più forte di quanto sia mai stato in passato perché nel corso di quest'offensiva trentennale ho guadagnato l'appoggio di un'alleata preziosa: l'esperienza. Ho trascorso alcuni anni trincerato in me stesso, altri invece in prima linea dove mi sono confrontato su più fronti e, anche se io a casa non ho mai avuto nessuno a cui scrivere col piglio di Ungaretti, forse non mi sono mai sentito vivo come in questo periodo. Abile attendista per definizone, che il tempo si faccia avanti se ha coraggio.
Ho fatto arretrare molti limiti, ho colmato svariate lacune e anche se qualche battaglia è stata persa molti conflitti sono stati superati. Si vis pacem para bellum. A tale proposito mi vengono in mente le parole di una donna che stimo molto: "La lotta dello spirito è brutale come la guerra tra gli uomini". Potrei morire stanotte nel sonno o campare altri settant'anni e divenire così un simpatico centenario, ma ambisco ad altro che esula dal tempo e dai suoi rapporti quantitativi.
Sono sulla mia via e anche se trovo ogni senso in me stesso spero che il resto del cammino sia condiviso nella misura in cui ogni misura viene meno. C'è ancora molto da fare, ma che sia fatto o no forse non ha l'importanza che vi si può attribuire come quando sembra che l'abbia nelle più convincenti stronzate con cui la mia civiltà paga il suo stato di relativa quiete.
Il vecchio Frank è ancora sulla breccia, sconosciuto a tutti meno che a sé. Happy birthday to me.

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Giu

Sinergie

Pubblicato mercoledì 3 Giugno 2015 alle 13:46 da Francesco

Quella in calce è la mia tetrade corrente. Titoli enfatici, ma testi equilibrati tra cui sussistono dei punti di contatto. Ho la sensazione che un giorno tutte queste nozioni diventeranno obsolete come la fisica aristotelica e la medicina di Paracelso, perciò ne cerco un approccio che non sia solo intellettuale e difatti le mie esigenze non sono di quell’ordine.
Equidistante dal positivismo e dalla metafisica, io (parola grossa scritta in minuscolo) non posso che interessarmi ai loro tentativi di conciliazione.
Se volessi potrei liquidare tutto come un modo per darmi un tono, una ricerca d’evasione da questioni pragmatiche, una banale e ingenua fascinazione per certi temi od ogni altro tipo di resistenza dalle sembianze di faceto biasimo: per quanto vituperata, la realtà resta un’altra, in senso lato. In quest’ambito per me non c’è nulla di cui discutere perché ne traccio i confini nel soliloquio e nell’introspezione, ma approfitto della circostanza per inviare segnali flebili verso ricezioni improbabili. Frappongo ostacoli da superare.

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Giu

Logos ed Eros (accordo dei contrari)

Pubblicato lunedì 1 Giugno 2015 alle 04:06 da Francesco

Ho trovato piuttosto interessante un frammento della seconda appendice del Libro Rosso di Jung che si situa alla fine del volume. In quelle paginette conclusive sono prese di nuovo in esame le figure di Elia e Salomè, ovvero un vecchio e saggio padre, il quale rappresenta il Logos, e la di lui figlia che svolge la stessa procura per l'Eros.
Per come sono presentati, e con qualche spontanea forzatura, paragono quei due princìpi allo spirito apollineo e allo spirito dionisiaco di Nietzsche, ma in entrambi i casi riconosco come l'uno non sia posto in antitesi all'altro. Col medesimo grado d'approssimazione avrei potuto riferirmi ai due elementi del Tao e così via, in un dotto saccheggio di schemi analoghi dopo il quale, di fatto, non mi sarebbe rimasto nulla: che beffa. A proposito: ovunque io mi volga mi sembra che il dualismo sia sempre stato apparente, a uso e consumo delle morali regolatrici, per il bastone e la carota, per fare sì che gli inferi si stagliassero (bene e male) sul paradiso o viceversa.
Non ho fatto questa premessa per lanciarmi nell'ermeneutica del Libro Rosso o per azzardare una retrospettiva sul simbolismo della mia giovane specie: ho le spalle abbastanza larghe per sollevare un bilanciere, ma non per sobbarcarmi il peso di quelle impalcature filosofiche.
Oltre a vani tentativi di sagacia è opportuno che io giunga al punto, ammesso che da questo si possa poi tracciare alcunché. Certuni hanno imputato la mia verginità (fisica ed emotiva) ad un ricorso eccessivo della ragione, ma in tali occasioni costoro hanno commesso l'errore di credere che il Logos si opponga all'Eros; anche se non sono cristiano (e almeno per questi scampoli di primavera e l'estate imminente non lo diventerò), voglio parafrasare il Nazzareno: "Padre (o chi per lui) perdonali perché non sanno quel che fanno". Anzi, nessuna grazia e non sanno, punto.
La capacità di discernimento per me non si oppone ai moti del cuore, ma quando l'una si trova in sintonia coi secondi fa in modo che questi si esprimano con la massima autenticità, nella piena eleganza della loro consapevolezza e non per la furia cieca d'una passione che talora è viziata dal timore della solitudine: nel mio immaginario la differenza è la stessa che intercorre tra un cavallo imbizzarrito e uno che galoppa libero lungo praterie incontaminate, a mezzodì (nella fiera giovinezza) o alle ultimi luci dell'occaso (quando la vita si accorcia, come se prima la morte non le fosse stata sempre accanto…).
La mia facile teoria è la seguente: la puerile contrapposizione di Logos ed Eros è utilizzata da taluni per giustificare i propri passi falsi e soprattutto la consapevolezza con cui furono mossi; è troppo facile incolpare la cosiddetta "passione" ed è questo, sì, invece un trucco nel quale io ravviso un impiego davvero volgare dell'intelletto. Cerco di ragionare con il cervello in quanto è l'organo deputato a tale compito, perciò non mi occupo di chi delega il cazzo o altri genitali (e quanti sono mai?). Non posso intavolare alcun dialogo con chi non veda al di là del proprio prepuzio od oltre i propri estrogeni: errore di ambo i sessi a cui non mi presto.
Mi occupo anche di contraddizioni del genere nel saggio che sto scrivendo a intervalli quantomai irregolari, ma non so quando o se quest'ultimo vedrà mai la luce e d'altronde non me ne frega nulla, proprio come a chiunque altro: ecco un esempio di silente unanimità.

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