Talvolta l’introspezione è considerata un segno di debolezza, come se certe cose dovessero restare taciute, prigioniere di una pudica reticenza o dei propri imbarazzi, ma secondo me tale pratica richiede una forte autodisciplina e non credo che sia alla portata di tutti.
In più occasioni ho notato come l’analisi di sé stessi ricordi a certuni uno di quei libri che alcune scuole superiori hanno la colpa (o il merito, chissà) d’inglobare nei loro programmi: mi riferisco in particolare a “La coscienza di Zeno”. Ho riscontrato quest’associazione d’idee in soggetti con un certo grado di scolarizzazione, a riprova di quanto cultura e intelligenza siano differenti, con la prima sempre subalterna della seconda: forse l’accumulo di nozioni può servire in un quiz, nella seduzione intellettuale o in attività forensi; meno in altri campi, secondo me più importanti.
Quei lettori di Svevo equiparano l’analisi alla natura del soggetto analizzato, perciò ai loro occhi l’inettitudine di Cosini qualifica inetta l’introspezione in quanto tale. Ogni tanto anche Goethe è scomodato per paragoni tanto incauti, quindi “I dolori del giovane Werther” risulta l’opzione un po’ più sofisticata per il medesimo errore di valutazione. Per me non esiste visione più ristretta di quella che s’illude di poggiare su una presunta erudizione e un’apparente elasticità mentale. Io stesso sono un candidato perfetto per cadere in uno sbaglio del genere, ma non in questo ambito. Porsi certe domande e mettersi in discussione da soli è tutt’altro che piacevole, perciò denigrare quanto induce a farlo è un escamotage per sottrarvicisi con meno resistenze.
A me non fotte un cazzo dell’introspezione altrui, ma non voglio sforzarmi di trovare dei punti di contatto (dunque non escludo che possano comunque esserci) con chi sia cristallizzato in certi preconcetti. In me coesiste una parte estroversa che non ha ancora trovato terreno fertile in chicchessia, ma non considero l’assenza di rapporti stretti un vanto né un’ignominia.
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