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Del correre e del conoscere

Quest’oggi ho corso per trenta chilometri in mezzo alla neve e al fango, ma rimando ad un altro momento il resoconto della gara e mi limito a prendere spunto dai pensieri che l’hanno scandita.
Un tempo correvo per compensare le mie mancanze affettive e in questo modo riuscivo a vivere bene nel deserto emotivo in cui ancora dimoro, poi la sublimazione è terminata e sono cambiate le ragioni delle mie falcate. Mi sono reso conto che adesso corro per imparare a morire, cosicché al momento della mia ora io non sia del tutto impreparato, però auguro a me stesso di vivere a lungo e soprattutto bene! Quest’ultimo è un auspicio che rinnovo di tanto in tanto e dunque spero di potermelo ripetere molte altre volte ancora, ma allora dovrei augurarmi lo stesso per la speranza di ripetere l’auspicio di cui sopra: in realtà sono più semplice di quanto appaio. 
Platone stesso afferma nel Fedone che la “filosofia è imparare a morire” e Seneca si occupa di quella che egli chiama ars moriendi, perciò ormai asservisco la corsa e i suoi sforzi a questo tipo di studio: mi occupo della fine. Qualche mese fa ho attestato la scomparsa della sublimazione e già allora sapevo che qualcos’altro le sarebbe subentrato: adesso la sostituzione è chiara.
Oltre a macinare chilometri continuo ad accumulare nozioni, però non credo che l’aumento del bagaglio culturale sia necessariamente un bene e mi sembra che non di rado tale incremento abbia una spinta vanesia quanto quella che induce certuni (compreso il sottoscritto) a lavorare sull’ipertrofia muscolare. Ripeto: sono più semplice di quanto appaio. Anche a Seneca era invisa un certo tipo di conoscenza e c’è un passaggio di una sua lettera in cui secondo me lo dichiara in modo efficace: “Voler conoscere più del necessario è una forma di intemperanza. Che dire poi di questa moda che ci fa seguire le arti liberali e ci rende importuni, prolissi, intempestivi e vanesi e ci ci fa trascurare il necessario perché abbiamo imparato il superfluo?”.

Francesco

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