Il lungo rimpatrio

È giunto il momento di tornare a casa e di cambiare registro: Seattle, Parigi e poi un lungo scalo in Italia, forse di cinquantadue anni secondo l’attuale stima della vita media.
L’altro ieri ho avuto un sogno ricorrente, quello di precipitare in aereo. Di solito il vero significato dell’attività onirica si cela dietro il contenuto manifesto del sogno (e l’interpretazione di questo classico è una delle più semplici), ma non escludo che le prossime diciotto ore di volo possano rivelarne il carattere premonitore. Sono poco incline all’idealizzazione e immune alla nostalgia, ma di certo sentirò la mancanza di alcune cose.
Anzitutto i piacevoli allenamenti su Kohala Road, la cui vista sull’oceano non mi ha mai tolto il fiato (altrimenti sarebbe stato problematico continuare a correre), però mi ha fornito un senso di onnipotenza che più volte, per qualche chilometro, ha sospeso il mio ateismo a favore di un’identificazione immaginaria e passeggera con l’archetipo del creatore (uno qualunque).
Inoltre: la lava solidificata (per riassumere quasi tutto), la vetta del Mauna Kea e la distanza siderale da qualunque terra disgraziata.
Mi mancherà anche la quotidiana visione delle valchirie che da queste parti superano in numero le mortali. Il mio è puro estetismo: virgo intacto sono partito e tale ritorno. A proposito, per me le Hawaii sono migliori del Valhalla perché qui fa caldo tutto l’anno.
Altro da cui non vorrei separarmi: il secondo emendamento, la possibilità di svoltare a destra con il rosso (altro retaggio del maccartismo?) e la Diet Dr. Pepper.
Sono comunque contento di rimpatriare perché c’è un tempo per ogni cosa, compreso quello in cui ogni cosa non ci sarà più.
A me manca il senso di appartenenza e non lo sottolineo per fare il figo (quello cerco di farlo ogni tanto con questi improbabili e prolissi esercizi di sagacia), bensì perché in linea di massima non c’entro davvero un cazzo con l’ambiente in cui sono cresciuto, eppure ci vivo bene lo stesso per ragioni che sono note a chiunque sia sulla mia stessa lunghezza d’onda.
In alcune sue lettere Seneca salutava Lucilio con delle massime di Epicuro, io invece che sono autoreferenziale (faccio di necessità virtù) cito per me un allegro passaggio d’un siculo che fu contemporaneo della fine del mondo: “L’amore per il suolo in cui si nasce è un sentimento in più. Ogni radice è di troppo. L’idea di patria, l’idea di nazione, sono idee patetiche e casalinghe. Il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita, o indifferente come quello delle lumache”. Tutto da prendere cum grano salis. Saluti e bestemmie.

Francesco

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