È trascorsa meno di una settimana da quando ho fatto ritorno nella mia Itaca e tutto è rimasto come l’ho lasciato al momento della partenza. Mi sono riappropriato delle mie buone abitudini e mi sento già in pace con me stesso. Rinvigorite, nuovamente fiere e dislocate lungo il limes della mia individualità, così si presentano le legioni di umori, sentimenti e pensieri di cui sono a capo dentro il mio capo. Non ricevo ambasciate e attorno a me non odo lingue conosciute benché la torre di Babele sia lontana.
Ho saputo sfruttare i venti per rimettermi in sesto e adesso sono più forte di quanto sia mai stato. Non mi bastano le parole altisonanti o le suggestioni temporanee, per questo cerco e trovo le conferme che esigo nel mio approccio alla routine quotidiana. Questa volta la risalita è stata più lenta e mi è occorso il favore delle circostanze per accelerarla, però ora anche la soddisfazione è maggiore e chissà se gli dèi stanno a guardare. Vorrei chiedere udienza alla pizia di Pozzuoli, tuttavia il silenzio ce l’ho già e mi è più familiare di qualunque cosa possa infrangerlo. Devo stare al mio posto perché altro non mi è concesso, ma da qua godo di un’ottima vista. Benché lungi dal suo termine, non c’è altro inverno che mi sia stato più caro di quello che ancora mi punge ad ogni risveglio antelucano. Condivido tutto con me, perciò non devo neanche spezzare i pani.
È giunto il momento di tornare a casa e di cambiare registro: Seattle, Parigi e poi un lungo scalo in Italia, forse di cinquantadue anni secondo l’attuale stima della vita media.
L’altro ieri ho avuto un sogno ricorrente, quello di precipitare in aereo. Di solito il vero significato dell’attività onirica si cela dietro il contenuto manifesto del sogno (e l’interpretazione di questo classico è una delle più semplici), ma non escludo che le prossime diciotto ore di volo possano rivelarne il carattere premonitore. Sono poco incline all’idealizzazione e immune alla nostalgia, ma di certo sentirò la mancanza di alcune cose.
Anzitutto i piacevoli allenamenti su Kohala Road, la cui vista sull’oceano non mi ha mai tolto il fiato (altrimenti sarebbe stato problematico continuare a correre), però mi ha fornito un senso di onnipotenza che più volte, per qualche chilometro, ha sospeso il mio ateismo a favore di un’identificazione immaginaria e passeggera con l’archetipo del creatore (uno qualunque).
Inoltre: la lava solidificata (per riassumere quasi tutto), la vetta del Mauna Kea e la distanza siderale da qualunque terra disgraziata.
Mi mancherà anche la quotidiana visione delle valchirie che da queste parti superano in numero le mortali. Il mio è puro estetismo: virgo intacto sono partito e tale ritorno. A proposito, per me le Hawaii sono migliori del Valhalla perché qui fa caldo tutto l’anno.
Altro da cui non vorrei separarmi: il secondo emendamento, la possibilità di svoltare a destra con il rosso (altro retaggio del maccartismo?) e la Diet Dr. Pepper.
Sono comunque contento di rimpatriare perché c’è un tempo per ogni cosa, compreso quello in cui ogni cosa non ci sarà più.
A me manca il senso di appartenenza e non lo sottolineo per fare il figo (quello cerco di farlo ogni tanto con questi improbabili e prolissi esercizi di sagacia), bensì perché in linea di massima non c’entro davvero un cazzo con l’ambiente in cui sono cresciuto, eppure ci vivo bene lo stesso per ragioni che sono note a chiunque sia sulla mia stessa lunghezza d’onda.
In alcune sue lettere Seneca salutava Lucilio con delle massime di Epicuro, io invece che sono autoreferenziale (faccio di necessità virtù) cito per me un allegro passaggio d’un siculo che fu contemporaneo della fine del mondo: “L’amore per il suolo in cui si nasce è un sentimento in più. Ogni radice è di troppo. L’idea di patria, l’idea di nazione, sono idee patetiche e casalinghe. Il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita, o indifferente come quello delle lumache”. Tutto da prendere cum grano salis. Saluti e bestemmie.
Qualche giorno fa ho dovuto accompagnare una persona al tribunale di Kona che si è trovata a rispondere ad un’accusa per eccesso di velocità, così ho approfittato dell’occasione per avere uno spaccato insolito degli Stati Uniti e sono rimasto seduto in aula per tre ore ad assistere allo svolgimento di altri casi. Alcuni imputati sono stati condotti di fronte al giudice con le manette ai polsi, alle caviglie, la catena lungo il girovita e con la scorta delle guardie armate: per un attimo mi sono sentito dentro una scena di uno di quei film che hanno investito più volte le mie iridi.
Per me la più divertente è stata una ragazza che dopo la lettura di una lunga lista di accuse ha semplicemente detto: “I don’t need a lawyer”; anch’essa presentava quel look anzidetto che ai miei occhi è a metà tra un Hare Krishna (per via della tuta arancione) e uno schiavo da campo di cotone. Qualche caso si è concluso con un “dismissed with prejudice”, altri invece sono stati liquidati con centinaia d’ore di “community service” e altri ancora erano solo parte di vicende giudiziarie più corpose le cui pene finali probabilmente richiederanno l’uso dell’abaco.
Ieri invece ho guidato fino ad Hilo, la città più grande di Big Island. La natura attorno al centro urbano è stupenda. Ho passeggiato per un po’ nella zona della Coconut Island dove in passato s’è manifestata la furia dello tsunami. I parchi limitrofi sono incantevoli e hanno un’atmosfera zen. Malgrado il cielo fosse plumbeo per me la giornata è stata meravigliosa.
Tra poco invece andrò a correre lungo la Queen Ka’ahumanu highway che porta a Kona perché quest’oggi voglio un’altimetria più facile rispetto a quella di Kohala Road (le cui stupende viste comunque non mi stufano mai!). Correrò per venticinque chilometri dopodiché tornerò a casa per cucinarmi degli udon da accompagnare con della salsa di soia.
Quanto è accaduto in Francia non mi ha sorpreso più di tanto. Seguo la propaganda jihadista da fonti non convenzionali, inoltre m’interesso alle vicende del fronte siriano: ammiro i curdi che insieme a dei volontari occidentali (forse folgorati sulla via di… Damasco?) combattono contro il cosiddetto Stato Islamico. Insomma, un attentato era nell’aria, come d’altronde lo è sempre da quasi un quindicennio a questa parte. In tale ambito il mio interesse è di tipo militare e storico.
Non esprimo giudizi morali né sento la necessità di lanciarmi in una di quelle analisi che spesso trovano nell’autocompiacimento l’unica raison d’être. Ciò che mi accomuna al fondamentalismo è la mancanza di dialogo, ma nel mio caso non so quant’essa sia voluta. Potrei calcare la mano con l’umorismo di cattivo gusto o accodarmi allo sdegno generale, potrei cercare di essere originale a tutti i costi fino a scadere nella banalità o potrei semplicemente rinviare alle pagine di un libricino profetico che Emil Cioran scrisse nel sessanta, Storia e utopia: una lettura che io stesso intendo ripetere. Oggi, a maggior ragione, rinnovo quelle sante parole che digitai un mese fa: “Vorrei restarmene qua, avere una casa modesta ma con vista sull’oceano, una ragazza del Midwest con cui condividerla per il resto dei miei giorni e il piacere di leggere le prime pagine dei giornali come se fossero la cronaca estera di Alfa Centauri”.
Ambisco ad un esilio napoleonico. Ho trovato la mia Sant’Elena in mezzo al Pacifico, tuttavia non ho colpe da espiare. Da queste parti ormai è notte fonda e una piacevole stanchezza inizia ad impadronirsi del sottoscritto. Mi appresto a dormire e per conciliare il sonno spendo le ultime forze della giornata sulle Lettere a Lucilio: Seneca è il padre che non ho mai avuto.
Ricapitolazione d’inizio anno e cromatismi alchemici
Pubblicato mercoledì 7 Gennaio 2015 alle 08:01 da FrancescoGià intravedo la vigilia della mia partenza nonostante manchino ancora due settimane al lungo ritorno in Italia, perciò ne approfitto per un excursus che esula dalla solita cronaca di viaggio. Non sento il fiato sul collo, però vorrei sperimentare questa sensazione che per me è ancora inedita in ogni suo senso, specie quello in cui sono coinvolti tutti gli altri cinque.
In patria con la mia lingua madre mi sento figlio unico, ma non lamento uno stato di solitudine al quale devo comunque molto. Una volta a casa riprenderò a coltivare quei nuovi interessi che ho dovuto trascurare per partire; inoltre mi farò carico di certe incombenze che ho rimandato per lo stesso motivo. Può darsi che in cielo un’avaria, una turbolenza anomala o un jihadista mettano fine ai miei propositi e a tutto ciò che può ancora accadere: memento mori!
Questo viaggio è stato il più lungo ed intenso che abbia mai fatto, ma è stato anche iniziatico. Seguendo una certa terminologia alchemica posso riassumere i miei ultimi dieci anni in almeno due parti. Prima vi è stata la nigredo, una fase in cui ho iniziato a praticare l’introspezione e ho cambiato il mio fisico: ho distrutto quello che ero, dall’adipe ai desideri meccanici e ho tagliato i ponti con quasi tutti i miei consanguinei; una tabula rasa era indispensabile, tant’è che anche la mia ombra ci è andata di mezzo.
Quasi un lustro più tardi è giunta la cosiddetta fase dell’albedo, un periodo in cui ho cominciato a provare una certa padronanza della mia persona che si è poi riverberata lungo tutto il raggio dei miei interessi. Nello stesso arco di tempo sono riuscito a profondere ulteriori sforzi dai quali ho tratto altri benefici e piccole soddisfazioni, ovvero nient’altro che appendici dell’essenza di tale processo. In questo decennio, a cui io mi riferisco come epoca della sublimazione (che ormai ritengo conclusa), le fasi di cui sopra non sono state lineari e d’altronde non potevano esserlo. Le mie cadute hanno avuto sempre la stessa matrice: la totale mancanza di reciprocità; come in una sorta di supplizio di Tantalo non sono ancora riuscito a raggiungere il cuore di nessuno. Queste mancanze e i rari tentativi di colmarle (sempre dettati dal caso e da sincere intuizioni) talora mi hanno fatto vacillare sulla mia via e altre volte mi hanno proprio atterrato (o atterrito). Col senno di poi penso che ogni passo in quella direzione mi sia servito e forse ne avrei dovuti compiere di più decisi. I fallimenti mi hanno creato le condizioni ideali per perorare lo sviluppo personale, tuttavia non penso che possano più darmi alcunché: ormai ne conosco le dinamiche a menadito e nel migliore dei casi (o nel peggiore, che tanto è uguale) potrei provarne di nuovo le amarezze che l’Ego spaccia per uniche, ma di cui io invece ravviso chiaramente gli stereotipi.
Mi rendo conto che quanto mi appresto a scrivere possa sembrare arrogante ad uno sguardo estraneo e non lo appunterei se queste parole non avessero come destinatario il sottoscritto o se non contenessero già in nuce quell’autoreferenzialità da cui non ho modo di svincolarle.
Ora che ho messo le mani avanti posso annotare qualcosa sulla posizione altrettanto avanzata dei miei passi. In altre parole mi sento alle porte di quella che l’alchimia designa come rubedo, tuttavia non escludo che qui mi stia appropriando in maniera indebita di un termine per riferirmi a qualcosa di diverso: solo io posso conoscere la risposta e non è detto che sia quella giusta.
Ad ogni modo, mi domando se a fornirmi una prima e superficiale prova di questa transizione sia stato l’improvviso riguardo che ho preso a nutrire verso qualche tramonto, parte della giornata di cui per lungo tempo non mi sono spiegato l’altrui fascinazione: assonanze cromatiche.