Mi trovo alle Hawaii da cinque giorni e me ne sono già innamorato: non ho mai provato nulla del genere negli altri luoghi in cui ho messo piede. Attorno a Waimea c’è un paesaggio lavico che dà un’idea di come un giorno potrebbe presentarsi un esopianeta abitabile agli occhi di quegli astronauti che devono ancora nascere.
Il mio viaggio è stato lunghissimo ma meno stancante del previsto. Ho già conosciuto persone stupende e durante il volo da Los Angeles a Kona ho fatto un incontro particolare di cui scriverò in un secondo tempo. Cerco ancora di profondere gli sforzi necessari per non cambiare nome alle coincidenze, ma eventi piacevoli e inonsueti continuano a suggerire un nuovo battesimo. Negli ultimi giorni ho corso e sono andato in bicicletta: durante un allenamento a piedi ho fatto diciotto chilometri e ho raggiunto quasi i mille metri sopra il livello del mare! A quattromila metri di altitudine c’è un osservatorio astronomico dal quale spero di sbirciare questo mio universo. Sono felice di trovarmi in mezzo all’oceano Pacifico e invece di due mesi vorrei trascorrerci almeno un paio di vite, perciò al prossimo giro di samsara spero di rinascere da queste parti. Sono stato anche nella valle di Waipio la cui vista toglie davvero il fiato: ci tornerò di sicuro! Potrei annoverare un numero sconfinato di sensazioni in un quantitativo altrettanto indefinito di parole, ma ho di meglio da fare e ne sono lieto.
Sono prossimo alla partenza per un lungo viaggio, il più lungo che abbia mai affrontato e ne sono entusiasta. Non ho colto al volo l’occasione che mi è capitata, ma ho fatto comunque in tempo ad approfittarne per mettere qualcos’altro nel bagaglio delle mie esperienze.
Credo sempre meno alle coincidenze ma continuo a chiamarle in questo modo perché non voglio azzardare più di quanto mi consentano le mie intuizioni. A volte la sincronicità di Jung mi sembra che assurga la rango di scienza esatta, però non me ne convinco mai abbastanza e dunque ne resto solo affascinato, mai persuaso! Mi aspettano diciotto ore di volo e altrettante di attesa negli aeroporti. Vorrei uscire illeso da un disastro aereo per fare marameo alla morte, però se io dovessi davvero precipitare mi piacerebbe che le correnti dell’Atlantico (o quelle del Pacifico) avessero cura di portare i miei effetti personali sulle rive battute dai passi di una persona sola. Anni fa mi ero ripromesso che il mio prossimo viaggio sarebbe stato accanto a qualcuno e così per un po’ ho tessuto fantasie d’unione alle quali non sono mai seguiti intrecci di altro tipo: non sono riuscito a tenere fede a quel proposito perché di fede non ne ho trovata.
Come al solito cerco di viaggiare il più leggero possibile, perciò mi porto dietro poco di più di quanto serve per coprire la nudità adamitica: qualche libro, un paio di scarpe per correre, il mio passaporto, la patente internazionale e un paio di dispositivi elettronici (come sarebbero stati definiti un tempo, quand’ancora certa tecnologia non era diffusa come oggi e come forse lo sarà ancor di più un domani, magari con un’accresciuta consapevolezza di tutto il resto).
Prima di ogni partenza c’è sempre una traccia che ascolto più di altre e Sono un uomo di Claudio Rocchi è quella in cui adesso trovo maggiore risonanza: insomma, frequento quelle frequenze.
Buona fortuna a chiunque stia riprendendo quota, in volo o sul livello del mare.
Quando andavo a scuola seguivo di rado le lezioni, ne ero incapace, e silenti inquietudini non mi agevolavano, così, ogni tanto, per ingannare il tempo tracciavo sui libri o sui quaderni delle linee e delle curve dalle quali ricavavo degli spazi vuoti che poi riempivo con lo stesso inchiostro. Quell’espediente mi rilassava e le spiegazioni degli insegnanti mi scivolavano addosso come gli eventi scivolano su chi abbia raggiunto un certo grado di coscienza. Solo dopo qualche anno ho associato quegli apparenti scarabocchi a dei simboli vedici, ovvero i mandala.
Circa una settimana fa ho acquistato dei libri che porterò in un lungo viaggio la cui partenza è imminente: testi di cui preferisco possedere un’edizione cartacea quantunque non abbia alcuna intenzione di lasciare a casa il mio Kindle e la sua portentosa comodità. Insomma, durante i miei acquisti mi sono imbattuto in un libro illustrato dei mandala di Kamala Murty che ho apprezzato subito per la sua semplicità. L’intento dell’opera è quello di fornire un’ampia gamma di mandala che rappresenti uno spettro altrettanto esteso di stati d’animo. Jung si occupò di questi e di molti altri simboli, inoltre egli stesso ne esperì gli effetti terapeutici; così quest’oggi ho preso un foglio bianco, ho scelto il mandala più adatto a me e l’ho ricalcato prima di colorarlo con quattro matite: una rossa, una verde, una viola e una blu.
”Incassare le delusioni”, così titola la pagina che introduce il simbolo suddetto. In poche righe è spiegato molto bene ciò che per taluni è impossibile da capire. Mi ha colpito la capacità di sintesi del seguente passaggio: “Mi aspettavo probabilmente decisioni e azioni dall’altra persona che non corrispondevano alla sua natura. Se i miei sogni per nulla realistici vanno a monte, non posso dargliene la colpa, anche se mi sento ingannato e sono infuriato”.
La spirale centrale di questo mandala rappresenta la delusione recente, le spirali più piccole le delusioni che l’hanno preceduta, ma ci sono altre forme che si palesano e queste simboleggiano le speranze. Il testo recita: “Nella misura in cui il mio sguardo diviene più libero, riconosco che la mia vita non è suggellata soltanto da affanno e dolore, ma tra le delusioni-spirali sbocciano delle forme piene di speranza”.
Quando ho ricalcato il primo cerchio ero scettico, quando ho finito di colorare l’ultimo spazio ero calmo, forse sereno. Non so se sia stata l’autosuggestione o cos’altro, però riproverò di sicuro. In questo caso ho usato il verde della speranza e il rosso della passione (inespressa) per le spirali (le delusioni) poiché vanno di pari passo. Il rosso l’ho usato anche in alcune forme che io non considero speranze (come suggerito dal testo) ma sublimazioni (cioè passioni incanalate altrove). Il viola (che non si distingue granché dal blu a cui sono ricorso) rappresenta le forme a cui anch’io attribuisco il valore di speranza: speranze diverse a cui il verde non appartiene più. Il blu indica la dimensione terrestre, il cerchio rosso quello della passione che separa le spirali da ciò che invece compone speranze autentiche, di cui forse non ho neanche contezza, e difatti il cerchio esterno è viola come le forme anzidette.
Sto cominciando ad avvertire la necessità di tornare il più indietro possibile a tutto quanto v’è d’archetipico. Sono alla ricerca di un passato che non si trova sui libri di storia: intanto vivo.
E fu così che una mattina di novembre mi ricongiunsi con una parte di me. Adesso ogni cosa è al suo posto e di posto ve n’è ancora tanto. Sono ispirato da una nuova e spontanea vivacità che mi ha colto senza preavviso ma di cui conosco l’origine: quest’ultima si trova laddove le parole sgorgano nel pieno del loro senso e chiudono i cicli prima di sfociare nel passato.
Riesco a vedere con chiarezza i miei moti interiori tanto nei momenti bui come in questi scampoli di luce, tuttavia non posso orientarne la direzione a mio piacimento e non so se questo limite sia un bene o un male. Senza rendermene conto sono capitato su un piano dell’esistenza in cui gli esiti non contano nulla perché tutto verte sul modo in cui questi si delineano: chissà quanto ci resterò. Tutte le cose e le circostanze a portata d’uomo mi sembrano volubili, però mi chiedo se siano davvero tali o se vengano rese in questo maniera dalle percezioni che le mediano nel linguaggio del pensiero: com’è ovvio quest’ultima ipotesi a me pare la più plausibile.
Prima tetra e opprimente, ora dotata di senso e quasi confortante: questo è lo stato attuale della desolazione in cui versa una parte di me, come se fosse passata dalla notte al giorno o viceversa. Non ho vincoli da sciogliere né ponti da tagliare e forse per adesso è meglio così.
Il corpo, la mente e la manutenzione ordinaria
Pubblicato sabato 1 Novembre 2014 alle 23:53 da FrancescoNon ho mai avuto un sogno lucido e non sono stati degli sforzi intenzionali a produrre quei rari bagliori della coscienza che ho esperito nel corso di certe fasi oniriche. Forse non sono portato per questo genere d’attività o può darsi che io non mi ci sia impegnato abbastanza: ho provato anche ad avvalermi dei toni binaurali e isocronici, ma non mi hanno aiutato e d’altronde temevo che non funzionassero. Che si trovi proprio nella mia mancanza di aspettative l’ostacolo più grande per questo ordine di cose e per tutto il resto? Sono immune a qualsiasi effetto placebo?
Se fossi riuscito ad acquisire anche solo una parziale padronanza dei miei sogni avrei potuto trovare in quelle esperienze delle utilissime valvole di sfogo per la vita vigile e avrei facilitato il decorso del mio attuale periodo di transizione. Per Freud l’Io non è padrone a casa sua, però in qualità di ospite a me basterebbe un’accoglienza più calorosa da parte dell’inconscio.
Intendo riprendere il lavoro sul pranayama: ho smesso d’interessarmi al respiro quando pareva che quest’ultimo stesse per mancarmi. Sono tornato in pianta stabile sulla mia via anche se di tanto in tanto odo in lontananza delle frane innocue. Ho in serbo ulteriori piani per la cura della mia persona: tutte cose che posso fare da solo e nelle quali tale facoltà è ipso facto un dovere. La corsa continua ad essere alla base del mio equilibrio psicofisico e mi rendo conto di come ora me la goda più di quanto l’agonismo mi consentisse di fare. Stamattina ho percorso quindici chilometri in cinquantanove minuti e quarantanove secondi, ovvero con un ritmo di un secondo inferiore ai quattro minuti al chilometro: mica male. I numeri esprimo fatti e ciò che mi resta.