Mi sforzo di scrivere benché non ne avverta l’urgenza. Le uniche parole da cui io posso trarre beneficio sono quelle che non ho ancora pronunciato.
Oramai nei miei appunti domina l’autocompiacimento e quest’egemonia dimostra quanto si sia ridotto in me il bisogno d’esprimermi; in parte ne sono contento perché nella spontaneità del silenzio vedo l’anticamera di un’accresciuta libertà, ma allo stesso tempo provo una sensazione agrodolce, come se io mi stessi allontanando sempre di più dalle orbite in cui non ho mai colliso. Mi tedia la paradossale incomunicabilità di cui il linguaggio può essere tramite. Cosa mi rimane di una discussione forbita? Quante figure retoriche mi servono per confondere ancor più le acque già torbide di una scarsa empatia? Esauriti gli aggettivi e assodati gli interessi in comune, come posso capire il disagio altrui? Di cos’è fatta l’insonnia che ottunde una rara interlocutrice? In quale maniera posso sfuggire dalla meccanicità di queste domande e da quella di eventuali risposte? L’identificazione è un’arma a doppio taglio: può essere usata per attingere dalle forze archetipiche o per cristallizzare il Sé in un’immagine di comodo.
Per me non c’è differenza tra il più ignorante dei coatti e chi gli si crede superiore in forza delle nozioni che ha acquisito. Se usata come un analgesico da assumere per via di tracotanza, nella cultura io vedo estrema pochezza e nient’altro: esercizio mnemonico, filastrocche, automatismi. Mi affascina l’intelligenza, non l’istruzione che tutt’al più può esserne una conseguenza formale. Come posso comunicare questo concetto senza che il tono della mia voce o lo stile della mia scrittura lo adulterino? Quanto di ciò che ho appena scritto sarà recepito secondo le intenzioni con cui l’ho messo nero su bianco? Capirsi? Magari. Non vivo il dramma del verbo, bensì mi limito a prenderne atto. Ancora una volta mi sembra tutto nell’ordine delle cose. È la realtà che giudica i giudizi ed è inutile che io ci metta bocca, cucita o spalancata. Diatribe, disquisizioni, monologhi o liti, sfoghi e provocazioni: una famiglia allargata di cui la solitudine è l’instancabile puerpera. Anche in questo punto scorgo la vanitas che gocciola dalle mie parole: scrivo come se tutto ciò non mi riguardasse, come se ne fossi completamente estraneo.
Non trascino nelle mie conclusioni l’intera umanità per sentirmi meno solo, artifizio a cui invece ricorre chiunque voglia dare parvenza di universalità alle proprie tesi, bensì adopero costrutti dubitativi, avverbi e congiuntivi che rendono meno appariscente ciò che scrivo. L’aforisma non fa per me e al massimo posso apprezzarne l’arguzia o il potere evocatorio. Egli parla, io scrivo, noi diciamo: la realtà sentenzia ed è di questo che sono lieto, non delle ciarle, nemmeno delle mie. Piazze a ferro e fuoco, economie in caduta verticale, senso di precarietà: comunque vada…
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