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Si vis pacem, para bellum

Sono trascorsi quasi sei anni dal mio viaggio in Corea del Sud. Di Seoul ricordo il contrasto tra la fatiscenza e la modernità, più netto di quello che in seguito ho notato in Giappone e a Taiwan. L’Estremo Oriente ha sempre esercitato su di me un’attrazione naturale e mi auguro di tornarci quanto prima, tuttavia i soggiorni a quelle latitudini mi hanno dato di modo di apprezzare ancor di più il mio luogo natio malgrado io sia riuscito sempre ad eludere l’asineria del campanilismo. Non sono un esterofilo e al contempo non nutro alcuna forma di orgoglio nazionale; mi sento un apolide, ma di questo status non faccio una bandiera sennò tanto varrebbe che mi avvolgessi in quella sotto cui sono nato. Non è semplice sfuggire alle definizioni, alle identità e soprattutto a tutto ciò che si presta all’identificazione; forse negarsi al logos significa anticipare in parte la morte, tuttavia sembra che questo sia lo scopo ultimo dell’esistenza, o almeno è quanto mi è suggerito a gran voce dai silenzi dei cimiteri in cui talora metto piede; ad ogni modo io non attribuisco un senso funereo e nefasto a questi pensieri.
Non voglio perdermi in troppe digressioni, anche se esse ormai si sono insediate in larga parte di questo appunto col mio beneplacito. Ho evocato i miei ricordi coreani in quanto pare che al nord del trentottesimo parallelo siano in atto i preparativi di una catarsi nucleare. Il regime di Pyongyang nel corso degli anni ha attirato più volte il mio interesse, perciò non c’è nulla che mi stupisca nelle disamine offerte dalle testate giornalistiche e dalle emittenti televisive. È banale ogni citazione che attinga dal più celebre romanzo di Orwell, quello il cui titolo è uguale all’anno della mia nascita, ma è altresì scontato ogni spunto che prenda piede dall’immaginario nato in seno alla Guerra Fredda: corsi e ricorsi storici. Non cerco la coerenza nei potenti della Terra, e forse mi stucca di più il buonismo d’ogni aspirante analista che l’efferatezza di un dittatore, ma nella figura merdosa del papa l’uno non esclude l’altra e difatti trovano un punto d’incontro che rassomiglia al buco del culo. V’è il fanatismo dell’Occidente, in apparenza pacato, ma più simile ai modelli a cui si oppone di quanto le contrapposizioni illusorie facciano credere: un po’ come il denaro che è solo carta alla quale viene attribuito un valore di comodo, lo stesso assegnato ai crocefissi. Mi torna alla mente una celebre citazione degli indiani Cree, la quale paventa come soltanto una volta distrutta ogni forma di sostentamento l’uomo scoprirà che non si possono mangiare i soldi: io vi aggiungo un monito sull’altrettanta scarsa digeribilità delle icone sacre.

Francesco

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